Quando, a tarda notte, sono arrivate da Teheran e Gerusalemme dichiarazioni quasi identiche — “rispetteremo il cessate il fuoco purché lo faccia anche l’altro” — qualcuno ha tirato un sospiro di sollievo. Sembra la formula perfetta: un accordo annunciato con troppa fretta dal Presidente Trump, benedetto dal Qatar, salutato come prova di razionalità da entrambe le parti. Eppure basta esaminare la struttura di questa tregua per capire che somiglia più a una pausa tattica che a un vero armistizio.
Il cessate il fuoco nasce su basi tutt’altro che stabili: all’Iran veniva richiesto un arresto immediato delle ostilità, mentre a Israele era stata concessa una finestra operativa di dodici ore per completare le cosiddette “azioni difensive”. Una clausola che, di fatto, ha permesso ulteriori operazioni israeliane anche dopo l’inizio formale della tregua, come il bombardamento di un sito radar nei pressi di Teheran. L’Iran ha reagito con il lancio di due missili, subito intercettati dal sistema Arrow-3. È evidente che in un contesto così delicato, qualunque margine operativo lasciato a una delle due parti rischia di compromettere la tenuta dell’accordo. Più che segnare la fine delle ostilità, formule di questo tipo sembrano sospenderle provvisoriamente, in attesa del prossimo incidente.
Il nodo centrale resta il nucleare. Secondo stime trapelate dal Dipartimento della Difesa statunitense, le centrifughe IR-6 danneggiate dai bombardamenti americani non sono state distrutte: l’arricchimento oltre il 60% slitterebbe di qualche mese, non di anni. E del materiale già arricchito si è persa ogni traccia. Per Gerusalemme, parliamoci chiaro, la minaccia iraniana permane in tutta la sua complessità. Per Teheran, realisticamente, il conto alla rovescia per ricostruire è già iniziato. Se a questo si aggiunge che la tregua non prevede verifiche AIEA in tempo reale, si capisce perché i falchi israeliani parlino di “vittoria” ma tengano i motori caldi e l’attenzione molto alta.
Poi c’è il metaforico elefante nella stanza: i proxy sono fuori dall’accordo. Hezbollah in Libano, le milizie sciite in Iraq, gli Houthi nello Yemen non sono menzionati da nessuna parte. Il che significa che Teheran può continuare a usarli come leva di pressione senza “violare” formalmente l’accordo, e Israele può colpirli rivendicando il diritto di difendersi. Non è proprio l’architettura solida che si associa a una pace duratura.
E intanto le narrazioni divergono. Donald Trump brandisce la tregua come prova della sua abilità negoziale; Benjamin Netanyahu proclama che “tutti gli obiettivi di Operation Rising Lion sono stati raggiunti”; il presidente iraniano Masoud Pezeshkian annuncia “la fine del conflitto” salvo promettere ritorsioni se Israele dovesse sgarrare. Tre versioni incompatibili di una stessa realtà: nessuno ha vinto, ma nessuno può mostrarsi sconfitto.
La storia del Medio Oriente è un esempio da libri di testo di Teoria dei Giochi e ci insegna che un conflitto finisce soltanto quando infrangerne la tregua diventa più costoso che rispettarla. Oggi non siamo nemmeno vicini a quel punto. Finché non esisterà un meccanismo multilaterale di verifica sul dossier nucleare, una cessazione simultanea di ogni azione cinetica e, soprattutto, un vincolo chiaro imposto ai proxy, la tregua resterà un intermezzo utile a riorganizzare le rispettive forze — non un passo verso la pace.
È comprensibile aggrapparsi a qualsiasi spiraglio di quiete; ma confondere una pausa, probabilmente tattica, con la fine di ostilità che affondano le radici in decenni di conflitto a bassa intensità è un’illusione pericolosa. La vera domanda, allora, purtroppo, non è se la tregua reggerà, bensì quando — e con quale pretesto — verrà infranta.
Tregua o semplice pausa tattica tra Israele e Iran? Tregua o semplice pausa tattica tra Israele e Iran? Tregua o semplice pausa tattica tra Israele e Iran?