Il recente annuncio della Francia di riconoscere formalmente lo Stato di Palestina, rilanciato da Emmanuel Macron con la sua consueta enfasi diplomatica, è stato accolto da molti come un gesto coraggioso e innovativo. Ma, a uno sguardo più attento, la dichiarazione rivela tutta la fragilità e l’ipocrisia di una politica estera ridotta ormai a strumento di gestione degli equilibri interni. Dietro le parole altisonanti sulla pace e la giustizia internazionale si cela un calcolo elettorale freddo: arginare la frustrazione di una parte crescente dell’elettorato francese – giovane, urbano, di origine araba e profondamente ostile a Israele – senza assumersi la responsabilità di una visione geopolitica concreta o efficace.
Il testo stesso della dichiarazione francese, letto senza enfasi retorica o preconcetti terzomondisti, è un guscio vuoto. Non menziona i confini dello Stato palestinese, non chiarisce se questo debba includere Gaza, Cisgiordania o Gerusalemme Est, non specifica nulla circa il governo legittimo di tale entità né prende posizione sul ruolo di Hamas o dell’Autorità Palestinese. È un riconoscimento di qualcosa di etereo, non definito, né geograficamente né politicamente. In altri tempi si sarebbe detto un gesto simbolico. Oggi, più semplicemente, è una foglia di fico.
Serve a Macron per mostrare muscoli morali nei salotti progressisti d’Europa e placare le piazze francesi che da mesi contestano il governo proprio sulla gestione della crisi israelo-palestinese. È la versione mediorientale di quando Macron incitava l’Europa – ma sostanzialmente l’Italia – ad accogliere indiscriminatamente i migranti mentre Parigi chiudeva porti e frontiere.
Non stupisce neanche che questo riconoscimento arrivi in un contesto europeo segnato da tensioni interne e da un’ascesa inarrestabile del voto musulmano e pro-palestinese in molte circoscrizioni urbane. Non è un caso se la Francia ha perso, più di altri Paesi, la capacità di distinguere tra diplomazia internazionale e gestione dell’ordine pubblico interno. La politica estera è diventata ormai una prosecuzione della campagna elettorale con altri mezzi.
Si dirà che anche Germania e Regno Unito sono prudenti nel loro sostegno alla soluzione dei due Stati. Ma almeno non cercano di mascherare le proprie esitazioni dietro gesti teatrali. Starmer ha legato il riconoscimento della Palestina al «momento di massima utilità» in un processo negoziale, e Merz ha ribadito che «non si può parlare di Stato senza prima creare un contesto politico e istituzionale affidabile». Sono posizioni che si possono condividere o criticare, ma non mentono sulla loro natura: sono caute, magari opportuniste, ma non propagandistiche.
Il rischio più grande del riconoscimento francese non è la sua inutilità concreta, ma la sua capacità di alimentare illusioni e ulteriori tensioni. Illusioni nei confronti di un processo che non esiste, di uno Stato che non ha confini, di una leadership palestinese che è divisa, screditata o terroristica, e di una comunità internazionale che da anni non riesce nemmeno a concordare una definizione condivisa del problema – figuriamoci della soluzione.
Tensioni, perché così facendo Parigi isola ancora di più Israele e gli ebrei in Europa, e impedisce di esercitare la necessaria pressione sul terrorismo. In questo modo, Parigi non costruisce la pace: la simula. E, allo stesso tempo, manda un messaggio devastante sul piano geopolitico. In un momento in cui l’Iran consolida la sua influenza su Gaza, Hezbollah minaccia dal Libano e le democrazie occidentali cercano un fragile equilibrio tra sicurezza e diritti, riconoscere uno Stato fantasma rischia di indebolire proprio gli interlocutori palestinesi moderati, rafforzando le narrazioni di chi usa la causa palestinese come grimaldello per delegittimare Israele tout court.
L’Europa dovrebbe sapere che riconoscere uno Stato non è un atto performativo, ma una dichiarazione di esistenza che comporta doveri, conseguenze e responsabilità. Se non si accompagna a un piano politico concreto, rischia di diventare l’ennesimo alibi morale per non fare nulla, mentre la situazione sul terreno si deteriora. E soprattutto, rischia di essere interpretato dai soggetti più radicali non come un incentivo alla pace, ma come una legittimazione implicita della loro narrazione e – peggio ancora – delle loro azioni.
In definitiva, quello francese non è un gesto di coraggio, ma di comodità. Un riconoscimento che non costa nulla, che non cambia nulla, ma che promette molto a chi ne ha bisogno per sentirsi virtuoso senza essere efficace. È una diplomazia d’immagine, che parla alla pancia del proprio elettorato e chiude gli occhi davanti alle complessità della realtà. Un riconoscimento che riconosce poco, o forse nulla, se non l’inesistenza della politica estera europea.
Il fantasma dello Stato palestinese: la diplomazia performativa di Macron Il fantasma dello Stato palestinese: la diplomazia performativa di Macron Due pesi e quattro religioni. La pace giusta non si costruisce sull’ambiguità