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Washington: l’operazione israeliana in Libano è questione di ore

Paolo Montesi

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Secondo il canale saudita Al-Hadath, gli Stati Uniti hanno recapitato a Baghdad un avvertimento che suona come un’ultima chiamata prima della tempesta: una nuova operazione israeliana in Libano sarebbe imminente e proseguirebbe «fino al disarmo completo di Hezbollah». Il messaggio, trasmesso dall’inviato americano Tom Barrack, non lascia margini a equivoci. E soprattutto non è rivolto a Israele, ma all’Iraq: «Tenetevi fuori. Non fatevi trascinare in un’escalation regionale.»

A Washington non sfugge il rischio che un intervento israeliano lungo il confine nord possa trasformarsi in un conflitto a spirale, con Teheran a tirare i fili e le milizie irachene filo-iraniane pronte a inserirsi nel gioco. Lo hanno già visto accadere più volte negli ultimi anni: dall’attacco iraniano del 2024 alle ondate di droni che hanno attraversato l’Iraq per colpire Israele. Questa volta, però, gli Stati Uniti sembrano decisi a chiudere la porta prima ancora che si apra.

L’allarme arriva dopo l’eliminazione di Ali Tabatabai, capo di stato maggiore di Hezbollah, ucciso da un raid mirato nel quartiere di Dahiyeh, a Beirut, roccaforte del movimento sciita. È la prima operazione israeliana in piena capitale dopo cinque mesi di relativa quiete. Tabatabai era l’uomo designato per ricostruire la catena di comando di Hezbollah dopo l’ondata di attacchi mirati degli ultimi due anni. La sua morte ha creato un vuoto che l’Iran non può colmare con un semplice successore.

Il fatto che l’operazione sia avvenuta nel cuore dell’area controllata da Hezbollah, sotto gli occhi di tutti, è un segnale evidente: Israele è pronto a colpire dove e quando vuole. Negli ultimi mesi l’intelligence israeliana ha mostrato pubblicamente come sia cambiata la postura del movimento sciita: più armi dislocate oltre il Litani, più trasferimenti verso la Bekaa, più basi nel nord rispetto al sud. Segni che Hezbollah teme un’offensiva israeliana e si muove per disperdere le proprie capacità.

A ciò si aggiunge un dato rivelato dal centro di analisi Alma: dal cessate il fuoco in Libano del novembre 2024, Israele ha condotto più di 650 attacchi mirati nel Paese, metà dei quali in zone che Hezbollah riteneva «protette». Una pressione costante che ha eroso la libertà d’azione della milizia e che, secondo analisti americani e britannici, ha compromesso la sua capacità di lanciare un’offensiva massiccia contro il nord di Israele.

La Casa Bianca osserva con il fiato corto. Da un lato sostiene il diritto di Israele a eliminare una minaccia ormai sistemica che tiene evacuate da oltre un anno decine di migliaia di famiglie lungo il confine. Dall’altro teme che Teheran possa reagire mobilitando le sue milizie in Iraq, Siria e Yemen, accendendo un fronte multiplo che gli Stati Uniti non vogliono né possono gestire a un anno dalle elezioni.

Per questo l’avvertimento a Baghdad è così diretto: «Non intervenite. Non aprite corridoi, non lasciate transitare armi, non partecipate all’escalation.» I comandi iracheni, che da tempo oscillano tra la pressione americana e quella iraniana, si trovano ora davanti a un bivio. Le milizie filo-iraniane hanno già dichiarato che «qualsiasi aggressione al Libano sarà considerata un’aggressione all’asse della resistenza». Ma il governo di Baghdad sa bene che trasformare l’Iraq in una base operativa contro Israele lo esporrebbe a una risposta militare devastante.

Sul terreno, intanto, Israele aumenta il dispiegamento di truppe in Galilea e continua a evacuare i villaggi entro i primi cinque chilometri dal confine. L’aeronautica ha intensificato i voli di sorveglianza. I politici tacciono: di solito è il segnale più chiaro che qualcosa si muove.

Se e quando l’operazione partirà, sarà determinata non dalla politica, ma dalla matematica della sicurezza: finché Hezbollah manterrà arsenali pesanti a ridosso della frontiera, il nord di Israele resterà una terra di nessuno.


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