Le nuove mode non passano mai di moda, ma quella che arriva dal Nord Europa non ha niente a che vedere con abiti, accessori o design. L’ultima tendenza, nata tra Belgio e Olanda, è l’apertura di negozi che espongono in vetrina un motto che sembra uscito da un seminario permanente sulla fragilità: “spazio safe, no polizia, no forze armate”. Lo scrivono così, con orgoglio manifesto. Quasi fosse un bollino di qualità etica, un marchio progressista, una promessa di felicità comunitaria.
Si tratta in realtà di una dichiarazione d’intenti che fa trasecolare. Li chiamano “luoghi neutrali”: un’idea così tenera, così ingenua e così palesemente inadatta al mondo reale da diventare subito sospetta. Perché il punto è semplice: uno spazio in cui la polizia non può entrare non è mai uno spazio neutrale, ma semmai opaco. E l’opacità attira sempre qualcuno che non cerca la pace – e tanto meno la libertà – ma l’impunità.
A Bruxelles, ad Anversa, a Rotterdam, i primi locali di questo tipo hanno già attirato curiosi, attivisti, anime belle in cerca di “comunità non giudicanti”. Peccato che abbiano attirato anche altro. Basta guardare cosa succede dentro per capire che la teoria del “posto sicuro” regge meno di un ombrello al maestrale. Le luci sono basse, la clientela è rapida, la merce cambia di mano con una disinvoltura che non ha nulla del commercio come lo conosciamo noi. Non siamo davanti a caffetterie alternative dove ci si sballa con una cannetta, né a centri culturali sperimentali dove si recitano poesie sul “genocidio”: l’atmosfera ricorda più un retrobottega che una bottega, più una zona franca che un esercizio commerciale.
La neutralità, qui, è un ottimo – si fa per dire – pretesto. E la protezione emotiva un feticcio perfetto per mascherare altro. Perché “no polizia” non significa “tutti si sentono più liberi”. Significa semplicemente che nessuno controlla, nessuno verifica, nessuno chiede perché ci sia un via vai così serrato di persone che entrano ed escono senza nemmeno guardare il bancone. Il confine tra safe place e spaccio improvvisato diventa sottile come la carta velina con cui si incartano le tisane “calmanti”.
Il politically correct, quando impazzisce, produce mostri. L’idea che la sicurezza pubblica sia “offensiva”, che l’autorità sia “traumatica”, che l’uniforme turbi gli spiriti sensibili, ha trasformato la polizia nel nemico da cui proteggersi. Come se le forze dell’ordine fossero un’invasione barbarica e non la garanzia minima per impedire che gli spazi urbani finiscano in mano ai più aggressivi. È l’Europa che ha scambiato l’ansia per un criterio politico e la diffidenza per un programma culturale.
La cosa più paradossale è che questi locali si presentano come santuari della libertà, luoghi dove ogni identità può respirare senza paura. Ma la libertà senza regole diventa subito il paravento di chi ha tutto l’interesse a evitare regole e controlli. I cittadini onesti, quelli che entrano davvero alla ricerca di un ambiente gentile, scoprono troppo tardi di essere finiti in un limbo in cui le “buone vibrazioni” coprono odori che non appartengono esattamente all’incenso.
E mentre le vetrine proclamano inclusione, apertura mentale, accoglienza universale, la realtà è la solita: quando lo Stato arretra per non sembrare severo, avanzano i più svelti, i più furbi e i meno scrupolosi. La comunità, quella reale, ne esce più fragile. E la sicurezza, quella concreta, sparisce sotto un tappeto di slogan che hanno il suono della libertà e l’effetto della resa.
Così, tra un cartello contro la polizia e uno a favore del “benessere collettivo”, si consuma l’ennesima parodia progressista: una vetrina che grida emancipazione e un retro che sussurra tutt’altro. Un altro tassello di un’Europa che confonde il rispetto con la paura di dire la verità e che, per non turbare nessuno, finisce per lasciare campo libero a chi non ha timore di turbare tutti.
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