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VIAGGIO NELL’UEA (Unione Europea Antisemita) – Spagna: tra Atocha e l’odio post-7 ottobre

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 3 min
VIAGGIO NELL’UEA (Unione Europea Antisemita) – Spagna: tra Atocha e l’odio post-7 ottobre

La memoria collettiva è fragile, spesso fino a consumarsi nell’irrilevanza. Quanti ricordano cosa accadde nella stazione madrilena di Atocha alle 7:37 dell’11 marzo 2004? Quattro bombe esplosero sui treni dei pendolari: 193 morti e oltre 2.500 feriti, la strage più devastante in Europa dagli anni Ottanta. L’attacco, compiuto da jihadisti per punire la partecipazione spagnola alla guerra in Iraq, mostrò quanto fosse facile precipitare nell’inferno del terrorismo. Eppure, gli allarmi sulla radicalizzazione islamica furono presto rimossi. La maggior parte scelse di dimenticare, archiviando l’incubo come un evento eccezionale.

Vent’anni dopo, nel clima incendiato del post-7 ottobre, la Spagna registra un’impennata dell’antisemitismo. Secondo l’Observatorio de Antisemitismo en España (FCJE), nel 2024 si sono contati 170 episodi antisemiti, quasi il triplo rispetto ai 60 del 2023 e cinque volte i 35 del 2022. Nei primi tre mesi del 2025 siamo già a 28 episodi: quasi tre al mese. Commenti d’odio sui social, graffiti nei quartieri, insulti in strada o al telefono. Una curva che non sembra destinata a piegarsi: più la guerra in Medio Oriente si trascina, più il veleno si riversa nelle strade europee.

Dietro i numeri, i fatti. Nell’aprile 2024 un giovane ha tentato di aggredire con un coltello la sinagoga di Madrid gridando slogan antisemiti. A gennaio 2025, davanti a un centro ebraico di Barcellona, è stata scoperta una bomba artigianale: il primo tentativo di attentato ideologico dopo anni di apparente calma. Non più soltanto frasi d’odio online, ma il passaggio alla violenza fisica, concreta, con ordigni e armi.

Nelle piazze di Madrid, Barcellona, Valencia si moltiplicano cortei pro-Palestina in cui si urla “Israel genocida”, “judíos fuera”. Non ci si limita a slogan: concerti, mostre e festival letterari israeliani vengono marchiati come illegittimi e cancellati. Alcune università hanno interrotto collaborazioni con istituti israeliani, trasformando la cultura in un campo di battaglia. E mentre sindacati, ONG e partiti oscillano tra condanna e ambiguità, alcuni gruppi spingono perfino per abolire la definizione IHRA di antisemitismo, accusandola di limitare la libertà di espressione politica: una formula di comodo per legittimare insulti e demonizzazione collettiva.

Il governo Sánchez – fragile e sotto pressione – risponde in modo contraddittorio: da un lato rafforza la sicurezza delle sinagoghe, inasprisce le pene per l’incitamento all’odio e invoca la “tolleranza zero”; dall’altro taglia fondi militari diretti a Israele e adotta una politica estera oscillante, che rischia di alimentare l’equivoco tra critica politica e delegittimazione di un popolo. Questo doppio registro istituzionale – condanna formale e strizzate d’occhio – non fa che confondere l’opinione pubblica.

Intanto, sui social, un quinto dei contenuti legati al conflitto contiene antisemitismo, in aumento del 7% rispetto all’anno precedente. Non si tratta di scarti marginali, ma di una massa critica che interagisce con gli algoritmi e genera camere dell’eco sempre più tossiche. L’odio si legittima, diventa linguaggio quotidiano, entra nei talk show, assume lo status di opinione accettabile.

La Spagna ha già pagato un prezzo altissimo per aver sottovalutato il fanatismo. Eppure sembra ancora incapace di dire che Atocha non è un ricordo sepolto, ma un avvertimento. La domanda che resta sospesa è: quanto sangue dovrà scorrere ancora perché la lezione venga finalmente imparata?


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