La sera del 31 dicembre 2022, sulla base del monumento alla Shoah in piazza Eleftherias a Salonicco, appare una svastica tracciata con vernice nera e accompagnata da una frase irriferibile. Più di recente, il 26 agosto di quest’anno, l’ambasciata israeliana di Atene è stata assediata nella notte da una folla propal ebbra d’odio. Non solo insulti, ma un fitto lancio di bottiglie, torce, razzi artigianali, con una sfilata di bandiere recanti la Stella di David bruciate. Poche settimane prima, l’ambasciatore di Gerusalemme Noam Katz aveva denunciato il disagio dei turisti israeliani ad Atene. Il sindaco della capitale, Haris Doukas, replicava ruvidamente e senza pudore: «Abbiamo dimostrato la nostra ferma opposizione alla violenza e al razzismo e non prendiamo lezioni di democrazia da chi uccide civili».
Prima della Seconda guerra mondiale, in Grecia vivevano tra i 72.000 e i 77.000 ebrei, distribuiti in 27 comunità. Salonicco ne era il cuore pulsante, al punto da essere soprannominata «la Gerusalemme dei Balcani». L’occupazione nazista, con la collaborazione locale, portò a uno sterminio di massa: tra l’82% e il 92% degli ebrei greci furono deportati e assassinati nei campi di concentramento. A Salonicco, dei 50.000 ebrei ne sopravvissero meno di 2.000. Oggi, su oltre dieci milioni di abitanti, la comunità ebraica greca conta appena 5.000–6.000 persone, lo 0,05% della popolazione. A Salonicco ne restano circa 1.300.
Proprio questa esiguità rende ancora più impressionante la frequenza degli attacchi. Nelle settimane successive al 7 ottobre, le cronache greche hanno riportato vandalismi contro sinagoghe e cimiteri ebraici, minacce a membri delle comunità, insulti nelle scuole e nei media. In molte città studenti ebrei sono stati aggrediti con epiteti antisemiti; ad Atene e a Salonicco sono ricomparsi slogan ostili, manifesti antisionisti, inviti alla distruzione dello Stato di Israele. Nella centralissima piazza Syntagma di Atene, proprio di fronte al Parlamento, da mesi staziona una postazione propal: slogan, volantini, propaganda esibita in pubblico. I turisti passano e tirano dritto, gli ateniesi guardano con indifferenza. Tutto diventa normale, banale, quotidiano. Nel frattempo, nella società civile e politica circolano indecenti espressioni come «potere ebraico», «lobby sioniste», «ebraismo coloniale». Parte del mondo religioso conservatore della Chiesa ortodossa mantiene un atteggiamento ambiguo se non ostile, evocando il «tradimento» del popolo ebraico o accusando Israele di crimini universali.
Eppure, non mancano segnali opposti. A Salonicco è in costruzione un Museo dell’Olocausto, che sorgerà presso l’ex stazione ferroviaria da cui partirono i convogli per Auschwitz. Scuole, università e associazioni civili hanno avviato progetti educativi insieme alle comunità ebraiche. Alcuni religiosi hanno preso posizione contro l’odio, mentre gruppi di giovani si sono mobilitati per ripulire i muri imbrattati e ricordare, pubblicamente, chi furono gli ebrei greci e perché la loro memoria va protetta.
Dopo il 7 ottobre, essere ebrei in Grecia significa vivere in un clima di sospetto, esposti al rischio di diventare bersaglio dell’ira di piazza e del disprezzo digitale. In un Paese che ha già cancellato quasi del tutto la sua componente ebraica, l’intolleranza risorge con maschere nuove, ma con lo stesso veleno di sempre. Il dovere della memoria, in una nazione che ha visto l’80% dei propri cittadini ebrei annientati in soli tre anni, non può ridursi a cerimonie ufficiali o progetti museali. Oggi non si tratta soltanto di ricordare i morti. Si tratta di proteggere i vivi.
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