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USA. Capodanno sotto assedio

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
USA. Capodanno sotto assedio

Smettiamola di illuderci. Il terrorismo non si ferma (E, sia chiaro, noi che lo combattiamo, nemmeno). Quella che viene dagli Stati Uniti non è un’allerta generica né un’esercitazione. È un’operazione reale, con nomi, arresti e ordigni in preparazione. L’FBI ha sventato un piano coordinato di attentati per la notte di Capodanno tra Los Angeles e New Orleans, arrestando cinque militanti filo-palestinesi legati a un gruppo di estrema sinistra che, secondo il Dipartimento di Giustizia, stava preparando attacchi di massa contro civili e forze dell’ordine. Quattro di loro sono stati fermati nel deserto del Mojave mentre si addestravano a fabbricare ordigni esplosivi improvvisati. Il quinto è stato localizzato e arrestato a New Orleans.

A rendere pubblica l’operazione è stata il Procuratore generale Pam Bondi, che ha parlato senza giri di parole di un “complotto terroristico massiccio e orribile”, bloccato grazie a mesi di indagini congiunte tra FBI e procure federali. Il gruppo, che si definiva Turtle Island Liberation Front, viene descritto come un’organizzazione antigovernativa, anticapitalista e apertamente filo-palestinese, con una struttura fluida ma una chiara radicalizzazione ideologica. Nei documenti dell’accusa emergono piani per sparatorie di massa in California e attacchi mirati contro agenti e veicoli dell’ICE, la polizia federale per l’immigrazione.

Non si tratta di lupi solitari, né di fantasie da forum online. Le indagini parlano di addestramento, sorveglianza di obiettivi, tentativi concreti di costruzione di bombe artigianali. È il salto di qualità che molti analisti temevano da mesi: il passaggio dalla retorica incendiaria all’azione armata. Un salto che avviene in un clima internazionale già saturato di violenza, a poche ore di distanza dalla strage di Sydney durante un evento di Hanukkah, dove quindici persone sono state uccise, tra cui un cittadino israeliano.

Negli Stati Uniti le agenzie federali osservano da tempo una convergenza inquietante tra militanza radicale di sinistra, attivismo antioccidentale e una narrativa filo-palestinese che, in alcuni ambienti, ha smesso di essere politica per diventare giustificazione della violenza. Non è un fenomeno maggioritario, ma è sufficientemente organizzato da rappresentare una minaccia concreta. Negli ultimi mesi sono aumentati gli arresti per pianificazione di attentati, vandalismi coordinati, aggressioni contro sinagoghe, università e sedi governative. La parola “resistenza” viene sempre più spesso usata come foglia di fico per legittimare azioni terroristiche.

Il punto non è criminalizzare una causa o un’opinione politica. Il punto è riconoscere quando un’ideologia diventa il carburante di un progetto omicida. Il Dipartimento di Giustizia è stato chiaro: questi gruppi verranno trattati come organizzazioni terroristiche interne, perseguiti e smantellati. Nessuna indulgenza, nessuna ambiguità.

C’è un filo rosso (di sangue) che lega le piazze urlanti, i campus radicalizzati, le campagne social che banalizzano la violenza e, infine, i laboratori improvvisati nel deserto dove si impara a costruire bombe. Fingere di non vederlo è stata, finora, una colpa diffusa. L’operazione dell’FBI dimostra che lo Stato, quando decide di guardare in faccia la realtà, può ancora arrivare in tempo. Ma il conto di questa cecità culturale, prima o poi, qualcuno lo paga. E spesso lo paga a Capodanno, in mezzo alla folla.


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