Ciò che è accaduto all’Università di Pisa non è un episodio isolato, ma l’ennesima conferma che una parte del mondo accademico italiano è ormai ostaggio della violenza politica travestita da “solidarietà” per Gaza. Rino Casella, docente di Diritto pubblico comparato, è finito al pronto soccorso con sette giorni di prognosi: accusato di essere «sionista», circondato, spintonato, colpito a calci e pugni per aver osato difendere Israele e, peggio ancora, per aver tentato di proteggere un suo studente aggredito dai soliti squadristi pro-Pal. Questa è la fotografia di un’università che non garantisce più il diritto allo studio, ma la legge del branco.
A Pisa, da mesi, il senato accademico ha preferito abdicare al proprio ruolo, deliberando l’11 luglio che ogni collaborazione con istituzioni israeliane dovrà essere “oggetto di attenta valutazione”. Formula ipocrita che equivale a una messa al bando preventiva. Il risultato è stato quello che tutti temevano: i campus invasi da bandiere palestinesi (dietro le quali si celano quelle verdi di Hamas) e occupazioni tollerate con colpevole complicità. Quando l’università non difende la neutralità della conoscenza, diventa terreno fertile per la violenza.
Se Pisa rappresenta l’arroganza delle squadracce, Torino è la prova della viltà dei vertici accademici. Al Politecnico, il professor Pini Zorea, docente israeliano invitato come guest lecturer, ha pronunciato una frase semplice e inequivocabile: ha definito l’IDF «l’esercito più pulito al mondo». Apriti cielo. Non c’è stata nessuna aggressione fisica, non ce n’è stato bisogno: il rettore Stefano Corgnati ha immediatamente interrotto il corso, rescindendo ogni rapporto con il docente. Il tutto accompagnato da un comunicato ufficiale che sa di resa morale: il Politecnico «condanna quanto espresso dal docente». Tradotto: un’università italiana, invece di garantire libertà di parola a un ospite internazionale, lo caccia in tronco per aver espresso un’opinione sgradita. Il boicottaggio non è più una minaccia: è pratica corrente.
A Pisa e a Torino si consuma lo stesso delitto accademico. L’idea di università come luogo di confronto, democrazia e libertà, è sostituita dall’idea di università come spazio di intimidazione, dove l’unico discorso ammesso è quello filo-palestinese, possibilmente radicalizzato, e ogni voce ebraica o filoisraeliana deve essere silenziata, con le botte o con la censura istituzionale. È questo che chiamiamo libertà accademica? È questa la cultura che vorremmo trasmettere agli studenti?
Il ministro Anna Maria Bernini ha ragione a dire che «le università non sono zone franche». Ha ragione a dichiarare che il Mur si costituirà parte civile. Ma non basta. Non bastano i comunicati indignati, non bastano i richiami alla legalità: serve una svolta vera. I rettori devono essere messi di fronte alle proprie responsabilità, perché sono i primi garanti della sicurezza e della libertà di pensiero nei campus. E invece a Pisa hanno chiuso gli occhi, a Torino hanno scelto la strada della sottomissione. Due università che dovrebbero essere fiore all’occhiello del sistema italiano oggi sono la prova più lampante della sua decadenza morale.
Il movimento pro-Pal non è un innocuo collettivo di studenti idealisti. È un coacervo che salda frange eversive, fondamentalismo islamico e complicità accademiche. La stessa regia che ha fatto interrompere la Vuelta de España per impedire la volata dei ciclisti israeliani, la stessa che a Parigi ha espulso studenti ebrei dalla chat della Sorbona. A Pisa e Torino si sperimenta un nuovo livello: la violenza fisica e la censura formale. Gli anni Settanta ci hanno insegnato dove portano le degenerazioni nate nei campus: alle Brigate Rosse. Chi non lo vede, oggi, è complice.
Università di Pisa e Politecnico di Torino non possono più rifugiarsi dietro formule burocratiche o dietro l’alibi della “pluralità di opinioni”. Non si tratta di pluralismo, ma di persecuzione. Non si tratta di libertà di parola, ma della sua negazione. E quando un’accademia legittima la violenza o la censura, non sta educando cittadini liberi, ma apprendisti stregoni dell’odio.
Per questo, da qui, rivolgiamo un appello netto: basta ambiguità. Basta boicottaggi mascherati. Basta con rettori che chinano la testa davanti alle minacce. Le università italiane non possono diventare incubatori di antisemitismo né luoghi in cui le squadracce si esercitano a colpire i più deboli. Oggi è un professore aggredito a Pisa, domani sarà uno studente, dopodomani chiunque osi dirsi amico di Israele. È così che inizia la barbarie.
Università al collasso morale: Pisa e Torino, avamposti dell’odio
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