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United States of Antisemitism, l’America che non si riconosce più

Andrea Molle

Tempo di Lettura: 5 min
United States of Antisemitism l’America che non si riconosce più

C’è un’America che si guarda allo specchio e non si riconosce. Un Paese che dopo aver giurato “mai più” all’ombra dell’Olocausto, si scopre ogni giorno più intollerante, più violento, più pericoloso per i suoi cittadini ebrei. L’antisemitismo negli Stati Uniti non è più un fenomeno marginale, limitato ai nostalgici del nazismo: è una piaga che si estende dai campus universitari a cert palazzi della politica, dalle strade delle grandi città ai social network, fino a trasformarsi in violenza fisica.

I numeri parlano chiaro. Secondo l’Anti-Defamation League, nel 2024 si è registrato un picco storico dell’antisemitismo: oltre 9.000 episodi, con un aumento del 361% a partire dall’infame ottobre 2023 e in sovrapposizione con la guerra di Israele contro Hamas. Il 58% di questi atti sono direttamente collegati alla retorica contro Israele – il cosiddetto “antisionismo”. La comunità ebraica statunitense è sottoposta a una pressione sconcertante: il 33% degli ebrei americani dichiara di aver subito episodi direttamente di antisemitismo, il 56% ammette di aver cambiato le proprie abitudini di vita per timore di ritorsioni e il 69% è stato bersaglio di odio online. In altre parole: essere ebrei nell’America di oggi significa vivere con un’ansia costante, spesso in silenzio.

Ma non si tratta solo di odio verbale. Il 2025 ha già visto due episodi clamorosi di antisemitsmo violento: a maggio, nella capitale Washington D.C., due giovani diplomatici israeliani sono stati giustiziati davanti al Museo Ebraico; a giugno, a Boulder in Colorado, un estremista islamico egiziano ha lanciato diverse molotov contro un raduno pro-Israele, uccidendo almeno una persona. Due attacchi in pieno giorno, motivati dall’odio e giustificati da una distorta lettura geopolitica. Due attentati che avrebbero meritato la stessa indignazione riservata ad altre forme di fanatismo. E invece, per molti, sono passati come “atti di protesta” o sotto l’etichetta del “se lo cercano”.

Un ruolo rilevante, ma troppo spesso minimizzato per timore di alimentare tensioni interculturali o per latente terzomondismo, è quello giocato dall’antisemitismo di matrice islamista. Alimentato da una miscela di ideologia jihadista, propaganda statale (in particolare da Iran e suoi proxy) e letture teologico-politiche radicalizzate, questo antisemitismo travalica il conflitto israelo-palestinese e assume una dimensione globale anche grazie a decenni di immigrazione incontrollata e integrazione abortita. Non si tratta solo di slogan nei cortei, ma di veri e propri atti di violenza mirata: dagli attentati a istituzioni ebraiche in Europa agli attacchi più recenti negli Stati Uniti. La retorica che dipinge gli ebrei come “nemici dell’islam” viene diffusa online in molte lingue, trovando terreno fertile in frange di comunità islamiche radicalizzate e, in alcuni casi, perfino in ambienti universitari sotto la copertura di un attivismo propalestinese. Ignorare questo fenomeno per ragioni di opportunità politica significa voltare le spalle alla sicurezza e alla verità.

Il mondo accademico, che dovrebbe essere presidio di libertà e pensiero critico, è oggi uno degli epicentri della delegittimazione e dell’intimidazione. Uno dei fulcri dell’odio anti-ebraico. Manifestazioni propalestina che si trasformano in comizi contro gli studenti ebrei. Rispetto alla prestigiosa Harvard, un’indagine federale ha stabilito che l’università è stata “deliberatamente indifferente” alle segnalazioni di antisemitismo in palese violazione della legge. E il Dipartimento dell’Educazione ha aperto decine di inchieste simili in altre università più o meno prestigiose. Il denial è tale che l’amministrazione Trump è dovuta addirittura intervenire con un ordine esecutivo che impone alle università di riconoscere l’antisemitismo come violazione dei diritti civili, suscitando immediate reazioni ideologiche più che soluzioni condivise.

A peggiorare le cose, c’è poi l’ambiguità complice di parte del panorama politico. Si moltiplicano le voci che, nel condannare Israele, finiscono per giustificare chi attacca gli ebrei tout court. L’identità ebraica, che fino a che ha fatto comodo era semplicemente “una religione” viene ridotta adesso a un’estensione del conflitto mediorientale, come se un adolescente ebreo di New York dovesse pagare il prezzo delle scelte di un governo a Gerusalemme. Peggio: si assiste a una saldatura preoccupante tra estremi opposti. L’estrema sinistra antisraeliana e l’estrema destra complottista condividono un linguaggio antisemita sempre più simile, alimentando una spirale di odio che attraversa ideologie e appartenenze.
È davvero ora di dire basta: l’antisemitismo non è un’“opinione”. È un segnale d’allarme per la democrazia. Israele è il canarino nella miniera. Oggi tocca agli ebrei, domani a chiunque altro. E chi si illude che basti restare neutrali o equidistanti, contribuisce — con la sua indifferenza — a normalizzare l’intolleranza.

L’America ha bisogno di risposte chiare, non solo di condanne rituali. Serve una legislazione coerente, serve un’educazione che spieghi cos’è l’odio e da dove nasce, serve soprattutto il coraggio — politico, accademico, culturale — di chiamare l’antisemitismo con il suo nome, anche quando si maschera da attivismo o da critica politica apparentemente legittima. Perché la linea tra la protesta e il pregiudizio non è così sottile. E chi non la vede, ha già scelto da che parte stare.


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