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Una luce per gli ostaggi. Roma si illumina per non dimenticare il 7 ottobre

Setteottobre

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Una luce per gli ostaggi. Roma si illumina per non dimenticare il 7 ottobre

Due anni dopo il massacro del 7 ottobre 2023, il Quartiere ebraico di Roma ha acceso le sue luci per ricordare. Non solo per commemorare, ma per gridare ancora una volta — con la voce ferma di chi non si rassegna — “Nachziru otam habaita achshav”: riportiamoli a casa, adesso.

La manifestazione “Una luce per gli ostaggi”, organizzata dalla Rappresentanza Italiana del Forum delle Famiglie degli Ostaggi, dall’Unione Giovani Ebrei d’Italia (Ugei), da Run for Their Lives – Roma e dall’Associazione Setteottobre, con il patrocinio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (Ucei), ha riunito nel cuore di Roma circa trecentocinquanta persone. Una serata di raccoglimento e di impegno civile, moderata dal giornalista Aldo Torchiaro, direttore di Setteottobre.com, che ha accompagnato gli interventi ricordando i volti, i nomi, le storie di chi da due anni è ancora nelle mani di Hamas.

L’atmosfera, nella piazza davanti al Tempio Maggiore, era quella delle grandi ricorrenze civili. Le candele accese, le bandiere con le foto degli ostaggi, gli striscioni con la scritta “Bring them home now” si mescolavano ai canti e alle preghiere. Nessun slogan d’odio, nessuna rabbia: solo la volontà ostinata di non permettere al silenzio di vincere.

A rompere il gelo della sera sono state le parole di Benedetto Sacerdoti, portavoce italiano del Forum delle Famiglie degli Ostaggi:
«Lo facciamo ancora una volta, ma con la speranza che questa sia davvero l’ultima. Basta. Non vogliamo più aspettare. Quarantotto ostaggi sono prigionieri da due anni, nell’indifferenza del mondo. Uomini rinchiusi nei tunnel, incatenati alle caviglie, ridotti a scheletri, costretti a scavarsi la fossa con una pala, a dividere una scatoletta di fagioli per sopravvivere. Le immagini diffuse da Hamas lo hanno mostrato chiaramente, ma il mondo ha preferito ignorarle».

Le sue parole, forti e dolorose, hanno riportato la realtà al centro di una scena che la politica internazionale tende sempre più a spostare ai margini. «Le famiglie degli ostaggi – ha aggiunto Sacerdoti – vivono da due anni sospese tra speranza e angoscia: la speranza di riabbracciare chi è ancora vivo, l’angoscia di ricevere almeno i corpi di chi è stato ucciso, per poter dare loro una degna sepoltura».

Intorno a lui, le comunità ebraiche italiane, i rappresentanti delle associazioni e molti cittadini non ebrei. Gente comune, studenti, famiglie, diplomatici e amministratori locali: tutti uniti in un gesto di memoria collettiva che ha voluto restituire umanità a chi è stato ridotto a numero, a ostaggio, a ostacolo nei negoziati.

Nessuno dei presenti ha dimenticato le immagini del 7 ottobre: i kibbutz devastati, i bambini trascinati via, le famiglie massacrate, i volti dei rapiti impressi nei manifesti che ancora tappezzano Gerusalemme e Tel Aviv. A due anni di distanza, quella ferita non si è rimarginata. Anzi, si è fatta più profonda, perché il tempo dell’attesa è diventato il tempo del disincanto: quello in cui la speranza di un ritorno si scontra con l’indifferenza dei governi e delle opinioni pubbliche, ormai distratte da altre emergenze.

In questo clima di smarrimento, la luce delle candele ha assunto un valore simbolico e politico insieme. Una luce fragile, ma testarda: il simbolo di chi non rinuncia alla verità. Ogni candela, accesa per un nome, per un volto, per una vita, era una piccola dichiarazione di resistenza morale.

A chiudere l’iniziativa è stato l’intervento di Luca Spizzichino, presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia:
«Dobbiamo essere una luce accesa nel buio della loro prigionia, ricordando al mondo che queste persone, trattenute da due anni, non possono essere dimenticate. Oggi siamo qui per lanciare un messaggio chiaro: non smetteremo mai di chiedere la loro liberazione. È nostro dovere morale – come giovani, come cittadini, come esseri umani – alzare la voce e rivendicare con forza e determinazione che tutto venga fatto per riportarli a casa».

Quelle parole hanno chiuso la manifestazione ma non la sua eco. Perché ogni anniversario del 7 ottobre non è una semplice ricorrenza: è un atto di testimonianza. È la volontà di rifiutare la rimozione, di opporsi alla stanchezza morale di chi preferisce non vedere.

In un mondo che sembra abituarsi a tutto, persino all’orrore, Roma ha scelto di non voltarsi dall’altra parte. La comunità ebraica, le famiglie degli ostaggi, i giovani e i cittadini presenti hanno ricordato che la libertà di uno solo è la libertà di tutti.

E quando le candele si sono spente, nell’aria del Portico d’Ottavia è rimasta una sola frase, pronunciata da decine di voci in ebraico:
«Nachziru otam habaita achshav» — riportiamoli a casa, adesso.


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