Il Procuratore capo della Corte penale internazionale, Karim Khan, è sotto accusa da oltre un anno per molestie sessuali sul lavoro. Una funzionaria della Corte, giovane avvocata, lo accusa di comportamenti sessuali coercitivi e abuso di potere in ufficio, in hotel durante missioni istituzionali e persino nella sua abitazione. A questa denuncia se n’è aggiunta una seconda: un’ex stagista non retribuita ha raccontato episodi imbarazzanti risalenti ai primi passi professionali con Khan. Due donne, due fascicoli aperti, un’inchiesta ONU ancora in corso. E tuttavia, silenzio quasi assoluto. La grande stampa italiana tace, i movimenti femministi – quelli pronti a linciare qualsiasi maschio bianco di medio rango accusato anche solo di una battuta sbagliata – qui improvvisamente si voltano dall’altra parte. Perché?
Per provare a capirlo bisogna guardare al contesto. Negli ultimi due anni Khan è diventato il volto giudiziario del fronte anti-Netanyahu. I mandati chiesti contro il primo ministro israeliano e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant lo hanno trasformato nel campione “progressista” perfetto: l’uomo che osa sfidare Israele nel tribunale della coscienza globale. Per una parte consistente dell’opinione pubblica europea, delle ONG, delle piazze pro-Gaza, mettere in discussione Khan equivale a tradire la causa. Meglio ignorare le donne che lo accusano, meglio occultare le ombre sull’uomo che ha preso di mira Netanyahu. La narrativa è troppo preziosa per essere disturbata dai dettagli.
Adesso un’inchiesta del Guardian aggiunge particolari inquietanti, degni di una spy-story più che di un organismo chiamato a incarnare la giustizia internazionale. Una società di intelligence privata con sede a Londra, Highgate, affiancata dalla Elicius Intelligence, viene ingaggiata per “valutazioni” attorno alla Corte. Nella pratica: scavare nella vita della principale accusatrice di Khan e della sua famiglia. Passaporti, tracciati dei voli, relazioni private, situazione finanziaria, persino il tentativo di mettere le mani sul certificato di nascita del figlio minorenne. Non parliamo di un controllo amministrativo: parliamo di pedinamenti digitali, accessi a database opachi, password pescate nel sottosuolo del dark web, incrociate con movimenti, contatti, tracce. L’obiettivo? Trovare qualsiasi appiglio per demolire la credibilità della donna, o meglio ancora per incollare addosso alla testimone l’etichetta comoda: vicina a Israele, infiltrata, pedina di una campagna filosionista contro il procuratore che ha osato colpire Netanyahu. Ma dai documenti visionati dal quotidiano britannico non emerge alcuna prova di questi legami.
Il dettaglio decisivo sta nel mandante. Dietro Highgate non c’è un cliente qualunque. Secondo l’inchiesta, il progetto viene commissionato da un’unità diplomatica di alto livello del Qatar. Il “Paese Q”, come viene definito nei documenti interni. Finanziamento sensibile, canali riservati, lessico da operazione coperta. Il Qatar: emiro che versa milioni nelle ONG occidentali, mediatore “umanitario” di professione, sponsor politico di Hamas, hub globale del racconto contro Israele. È questo attore, non secondario né neutrale, a muoversi sul terreno dell’intelligence privata per intervenire su un’indagine di molestie che tocca il procuratore che ha messo nel mirino Netanyahu. Non per difendere le donne, ma per mettere sotto pressione la donna che accusa.
Highgate si giustifica parlando di una «valutazione indipendente» su presunte attività coperte che miravano a minare la credibilità o l’indipendenza della Corte. Nega di aver agito contro singoli individui, nega di aver lavorato “per il governo del Qatar”, ammette però contatti, incontri, un mandato sensibile. Non nega neppure l’interlocuzione con i rappresentanti di Khan. È la coreografia perfetta della plausibile negazione: tutti si schermano dietro formule legali, nessuno spiega perché una testimone chiave di violenza sessuale diventi bersaglio di un’operazione di sorveglianza paramilitare.
Risultato: il procuratore che ha colpito Israele resta al suo posto, circondato dal rispetto rituale delle cancellerie e dall’applauso delle piazze; la donna che lo accusa viene passata al setaccio come un obiettivo ostile; un secondo testimone emerge; un Paese che gioca sistematicamente contro Gerusalemme si muove nell’ombra con contractors privati; la Corte penale internazionale – che pretende di giudicare Netanyahu – viene trascinata dentro un gioco sporco in cui il diritto appare lo strumento, non l’arbitro.
La testimone chiave lo dice con lucidità: se questa è la giustizia internazionale, non è il sistema al quale ha dedicato la sua vita. È esattamente il punto. Se la CPI si lascia usare come arma politica contro Israele, mentre un suo vertice è protetto da operazioni opache che partono dall’orbita del Qatar, la domanda non è più solo giudiziaria: è morale, politica, strategica. Chi sta davvero sotto processo?
Tutti questi elementi emergono dall’inchiesta del Guardian. Una inchiesta che nessuno, in Italia, ha voluto pubblicare. Eccetto noi.
Una inchiesta del Guardian sul Procuratore Cpi rivela lo zampino del Qatar
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