Eccoli qui. Non clandestini, non mimetizzati, non costretti al sussurro. Imam che fanno propaganda politica, elogiano i capi di Hamas, riscrivono l’11 settembre, rovesciano la Memoria, accusano Israele di crimini mentre santificano chi quei crimini li rivendica. E lo fanno a viso aperto, con i post, i like, le foto, i ringraziamenti pubblici. Tranquilli. Sicuri. Protetti da un clima che li assolve prima ancora che parlino.
Il caso di Lecce dell’imam Saiffedine Maaroufi non è un’eccezione: è un tassello. Come Torino. Come Monfalcone. Come Roma. Un arcipelago di predicatori “politici” che sanno perfettamente dove possono spingersi, perché hanno capito una cosa semplice: in Italia l’ambiguità paga. I tribunali chiudono un occhio, certa politica chiude l’altro, una parte dell’associazionismo applaude. E intanto il confine tra libertà religiosa e propaganda ideologica viene cancellato con un sorriso moralista.
Non sono lupi solitari, non sono ingenui. Sono quadri in formazione, leader che studiano, che tessono relazioni, che saldano imam, attivismo propal ed estrema sinistra in un discorso unico, compatto e aggressivo. Tutto legittimo, ci dicono. Ed è una pioggerellina di buone parole imbiancate dall’atmosfera natalizia: opinioni, dialogo, inclusione. Versioni aggiornate di oro, incenso e mirra, peccato però che a portare i doni al bambinello non siano tre magi generosi ma degli scaltri propagandisti del verbo islamico. Scava scava (ma nemmeno tanto) e scopri che l’elogio funebre è per il capo di un’organizzazione terroristica, che i “criminali” sono sempre gli stessi, che la democrazia vale solo se non disturba.
Il punto non è l’Islam. Il punto è uno Stato che finge di non vedere una propaganda che si sente ormai a casa. Così a casa da non temere più nulla. Nemmeno i giudici. Nemmeno le parole. Nemmeno la verità.
Tutto regolare, è solo propaganda
Tutto regolare, è solo propaganda
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