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Tutti Ron Arad: il manifesto del ricatto di Hamas

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 4 min
Tutti Ron Arad: il manifesto del ricatto di Hamas

Hamas ha diffuso una lugubre foto d’addio: quarantotto volti messi in griglia, numerati, tutti ribattezzati “Ron Arad”. E’ il manifesto di un ricatto: se Israele continuerà l’operazione su Gaza City, i prigionieri scompariranno come l’aviatore israeliano di cui da decenni non si conosce la sorte.

È propaganda di guerra, certo. Ma è soprattutto un’ammissione di ferocia: si minaccia la cancellazione fisica e simbolica di uomini e donne già rapiti, feriti, affamati. Un’estetica della crudeltà, studiata per umiliare le famiglie e godere dell’eco mediatica. Non servivano prove ulteriori dell’infamia di Hamas; hanno scelto comunque di fornirle, esibendo il sadismo come brand. Lo ha documentato Ynet, il portale di notizie del gruppo Yedioth Ahronoth, tra i maggiori in Israele, e confermato da altre testate: “foto d’addio”, ostaggi rinominati “Ron Arad”, messaggio in sovrimpressione che addossa a Gerusalemme la responsabilità del loro destino.

I numeri, oggi, inchiodano: i terroristi e i loro alleati tengono ancora 48 ostaggi; tra questi, secondo fonti israeliane, circa 20 sono ritenuti vivi, almeno 26 sono cadaveri trattenuti come trofei, e su altri due pendono timori gravissimi. Ogni ora che passa accresce il rischio che la “foto d’addio” diventi un catalogo di lutti. È questo il cuore del messaggio: non la richiesta di un compromesso, ma la minaccia esplicita di sparizione. E una società decente dovrebbe rispondere con un rifiuto netto di qualsiasi giustificazione morale.

Chi era Ron Arad, il nome usato come spettro intimidatorio? Ufficiale navigatore dell’Aeronautica israeliana, precipitò in Libano nel 1986, catturato dalla milizia sciita Amal e poi passato di mani in mani, fino a svanire nel buio degli scambi, delle torture, delle prigioni clandestine. La sua sorte non è mai stata accertata; per alcuni morì alla fine degli anni Ottanta o nei primi Novanta, per altri fu tenuto vivo ancora per un periodo, comunque inghiottito da un sistema che fa del prigioniero un oggetto negoziale. È precisamente questo che Hamas evoca: l’annullamento della persona, la riduzione a sigla, a minaccia. Trasformare ogni ostaggio nel nuovo “Ron Arad” significa promettere un’assenza eterna. È un linguaggio mafioso applicato alla politica, non una posizione politica.

Mentre i carnefici studiano inquadrature e slogan, in Occidente una parte rumorosa delle platee propal preferisce la carezza al boia. In Italia si convocano scioperi “per Gaza”, alcuni già realizzati, altri annunciati per i prossimi giorni, con parole d’ordine assolute e una condanna selettiva che evita di nominare il punto: c’è un gruppo che sequestra civili, li mostra a piacere, li usa come scudo e minaccia di farli evaporare nella notte libanese di trent’anni fa. Quella stessa retorica che pretende umanità per tutti non trova un solo minuto per dire: liberateli subito, senza condizioni. La mobilitazione si concentra su embargo, riconoscimenti, geopolitica lirica; sugli ostaggi, silenzio o fastidio. È una scelta che ha un costo morale.

C’è un punto che non si può più eludere. Il ricatto di Hamas non è “resistenza”; è la negazione di ogni principio che la sinistra civile europea dice di difendere: la persona prima della causa, il limite prima della vendetta, il dovere di soccorrere chi è in ostaggio. Tenere prigionieri e minacciarne la sparizione non è lotta ma truce sadismo politico. Chi lo giustifica, lo minimizza o lo relativizza, smette di essere “pacifista” e diventa complice. Se la vostra piazza non riesce a pronunciare tre parole semplici — liberi tutti subito — quella piazza non è contro la guerra: è contro i prigionieri.

È lecito discutere la strategia militare di Israele, è doveroso pretendere corridoi umanitari e protezione dei civili palestinesi. È persino sano contestare un governo. Ma niente di tutto questo concede lo sconto morale a chi rapisce, tortura, filma, baratta, ricatta e, infine, promette di cancellare. L’uso strumentale di Ron Arad come spettro collettivo è la confessione definitiva: Hamas non rivendica un futuro politico, rivendica il diritto di far scomparire le persone. E su questo non c’è trattativa, non c’è “ma”, non c’è sciopero che tenga.

Le famiglie degli ostaggi, in Israele e nel mondo, non chiedono proclami, chiedono respiro per i loro figli. Hanno visto ieri la “foto d’addio”, riconosciuto lineamenti, cicatrici, sorrisi forzati. Hanno sentito quel nome, Ron Arad, usato come un colpo d’aria ghiacciata. E hanno capito che il tempo si è fatto strettissimo. A loro, almeno, è dovuto un gesto semplice e concreto da ogni piazza che voglia dirsi umana: smettere di accarezzare i carnefici e pretendere, con voce chiara, la liberazione immediata degli ostaggi. Tutto il resto è rumore.


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