In Italia esiste l’errata convinzione secondo cui ‘la Legge’ prevede che la Polizia possa entrare nelle Università soltanto previa autorizzazione del Rettore. Di fatto si tratta di una prassi consolidata, in nome del rispetto dell’autonomia accademica, non certo di una norma giuridica. Il tutto ha origini medievali, quando l’Università era una comunità con propri statuti, tribunali interni, privilegi e anche immunità. Basti pensare che i docenti e gli studenti potevano essere giudicati solo da tribunali ecclesiastici o interni e non da quelli cittadini. Pare pertanto ovvio che, da allora, molto sia cambiato. Eppure in diverse occasioni la Polizia resta fuori dalle Università (per lo meno sino a quando non si percepisce che l’irreparabile sta per accadere), limitandosi a chiedere alle Autorità accademiche (Direttore di Dipartimento o Rettore) se si assumono la ‘responsabilità’ di eventuali incidenti. Un ultimo esempio di ciò è accaduto a Torino lo scorso 15 maggio, dove gli organizzatori e i relatori di una conferenza sull’antisemitismo e il diritto allo studio sono stati affrontati, aggrediti, circondati, insultati e malmenati con sputi, calci, pugni, sberle, camicie strappate, aste di bandiere palestinesi adoperate come bastoni. La Polizia? Come raccontato da due degli organizzatori, l’Avv. Cristina Franco e lo studente Pietro Balzano, è stata tenuta fuori dall’aula, a 300 m. di distanza (per poi intervenire, fortunatamente in maniera tempestiva, solo per evitare il peggio e far uscire i relatori – che non avevano potuto relazionare – dall’Ateneo). Responsabilità assunta dalla Direttrice del Dipartimento di Culture, Politiche e Società che avrebbe garantito sulla natura pacifica dei dimostranti. E qui ci si deve interrogare su almeno quattro aspetti della questione: 1) il diritto di studio e di parola; 2) il diritto alla protezione dell’incolumità fisica; 3) il concetto di dimostranti pacifici e 4) il ruolo delle Autorità accademiche.
In primo luogo, nelle nostre Università, almeno da che io ho memoria, parlare d’Israele è sempre stato molto difficoltoso. Purtroppo, negli anni più recenti, persino trattare temi legati al diritto allo studio (negato dalle ricorrenti occupazioni dei palazzi universitari) o all’antisemitismo è diventato problematico. E si badi bene: qui non si tratta di difendere il diritto all’esistenza dello Stato d’Israele o il diritto degli studenti ebrei di frequentare le lezioni senza ricevere minacce, che pure dovrebbe essere scontato. Non si tratta neppure di relatori israeliani da boicottare in nome del presunto diritto di critica nei confronti di Netanyahu. I relatori erano tutti italiani, alcuni ebrei altri no: dovrebbe fare la differenza?
Si trattava soltanto del diritto di studentesse e studenti di prendere la parola per rivendicare – anche alla luce del prossimo cambio ai vertici dell’Ateneo – un altro diritto: quello di poter seguire le lezioni e sostenere gli esami in un ambiente di studio sereno e non in un’arena politica che, con la scusa della lotta al fianco del popolo palestinese (solo di quello vicino ad Hamas, mai vista una manifestazione in sostegno dei partigiani palestinesi che si battono contro Hamas), trasfigura gli spazi e stravolge le normali attività accademiche. Purtroppo anche voler proporre una giornata di riflessioni su queste tematiche è stato fonte di scontri e incomprensioni. Molti giornalisti hanno riportato le aggressioni ‘di filopalestinesi contro i filoisraeliani’, dimostrando di non aver compreso lo scopo dell’evento. D’altra parte come avrebbero potuto? L’incontro non ha potuto svolgersi, come già altre volte, in quanto le aule, ripetutamente cambiate, erano zeppe di manifestanti che non avevano alcuna intenzione di ascoltare o di permettere ad altri di parlare e di essere ascoltati. Ѐ stato sufficiente vedere una kippà per etichettare l’iniziativa: sono ebrei, sono filo-israeliani. Nessuno si è soffermato a riflettere sul fatto che, per l’ennesima volta, sia stato negato il diritto alla libertà di parola. Un diritto di parola che, spiace dirlo, nel medesimo Ateneo, in passato, è stato garantito soltanto grazie alle Forze dell’Ordine.
Purtroppo gli eventi del 15 maggio – per come mi sono stati raccontati dagli organizzatori e per quello che è apparso chiaro dai video riportati da molti quotidiani e da diversi social – hanno messo a rischio l’incolumità di relatori e del pubblico interessato. Posso comprendere ci possa essere stata buona fede da parte delle Autorità accademiche, ma se tra i contestatori qualcuno avesse estratto un’arma o se anche un semplice schiaffo avesse fatto cadere in modo rovinoso una persona, in quanto tempo la Polizia sarebbe potuta intervenire? La Direttrice del Dipartimento e il Rettore si sono assunti una responsabilità impegnativa attenendosi a una prassi di origine medievale non più al passo coi tempi: alla Polizia – per lo meno alla Digos in borghese – avrebbe dovuto essere concesso di posizionarsi tra i relatori e i manifestanti in maniera da garantire non soltanto la libertà di parola, ma soprattutto l’incolumità fisica. Resta una domanda: davvero la Polizia è tenuta a rispettare un “divieto” espresso da chi dell’intelletto ha fatto la propria professione, ma non ha competenze in ordine pubblico? La mia stima nei confronti della Polizia di Stato è nota e la mia riconoscenza è e sarà imperitura. I miei ricordi vanno indietro di vent’anni quando era chiaro che tra i compiti della Digos, per non fare che un esempio, c’era quello di prevenire e reprimere tutte le condotte che avrebbero potuto turbare l’ordine pubblico e la sicurezza durante lo svolgimento di eventi pubblici. Non è un caso che il termine ‘reprimere’ sia posto in seconda posizione, dietro a quello di ‘prevenire’. Ѐ un errore madornale pensare che la Polizia serva solo a manganellare, la sua funzione più grande e nobile è quella della prevenzione e, come conseguenza, quella di tutela dell’incolumità delle persone. Anche in Università.
In terzo luogo, cosa contraddistingue manifestanti pacifici da squadristi? Vivo in Germania, a Brema, e sono solita vedere manifestazioni pro Israele, pro Palestina, pro Ucraina, pro Califfato, pro piste ciclabili, pro vita, pro LGBTQ e via discorrendo. Quasi sempre è presente anche la contro manifestazione. Il più delle volte si tratta di una piazza divisa a metà, con nel mezzo i poliziotti. Ognuno con i propri slogan e con le proprie bandiere (senza bruciare quelle degli altri), mai con espressioni di violenza fisica. Come sia possibile definire pacifici dei manifestanti che sputano, sferrano calci e cazzotti è per me un mistero. Pare normale far entrare una ventina di persone (tra relatori e interessati) in un’aula già zeppa di più di cento persone furiose e visibilmente per nulla interessate ad ascoltare rispettosamente e, perché no, ad alzare la mano per prendere parola alla fine della conferenza? Questa era la mia idea di Università: un luogo di confronto e scambio, un luogo di cultura e di messa in discussione di ogni pregiudizio. Un luogo atto a creare ponti. Qualcuno afferma che si trattasse soltanto di studenti arrabbiati perché era il 15 maggio, anniversario della Naqba (ovvero dell’aggressione araba nei confronti del neonato Stato d’Israele, esitata in maniera disastrosa per i palestinesi che, più che un loro Stato, sognavano di buttare gli ebrei a mare). Purtroppo il 15 maggio non ricorda solo il clamoroso autogol dei Paesi arabi, ma riporta alla mente anche la strage di Ma’alot. Era infatti il 15 maggio 1974 quando terroristi palestinesi presero in ostaggio più di 100 studenti israeliani in gita scolastica e i loro insegnanti, finendo con l’uccidere 22 ragazzi e 4 adulti. Ogni giorno, in questo mondo malato, può ricordare una strage: non sarebbe motivo sufficiente per reprimere l’odio invece che nutrirsene?
Il 28 e il 29 maggio saremo chiamati ad eleggere il nuovo Rettore/Rettrice dell’Università di Torino: un impegno gravoso. Auguro a chiunque verrà eletto/a di poterlo svolgere con coscienza, serenità e giustizia. Soprattutto con coraggio, senza dimenticare – come ha scritto Hannah Arendt – che il male “è una sfida al pensiero” e “può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo”. Non permettiamo che accada di nuovo. Mai più è adesso.