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Tunisia, condannato a morte per un post su Facebook

Shira Navon

Tempo di Lettura: 4 min
Tunisia, condannato a morte per un post su Facebook

Un padre di tre figli, disabile, poco istruito, condannato a morte per alcuni post su Facebook contro il presidente della Repubblica. Si chiama Saber Chouchane, ha 51 anni e viveva a Nabeul, nella Tunisia che nel 2011 era stata la più promettente delle democrazie nate dalla Primavera araba. Oggi quella promessa si è trasformata nel suo contrario.

La sentenza è stata pronunciata mercoledì scorso dal Tribunale di prima istanza di Nabeul e ha immediatamente scosso l’opinione pubblica. Chouchane è stato riconosciuto colpevole di «tentato rovesciamento del governo, oltraggio al presidente Kais Saied e diffusione di false informazioni online». I giudici hanno sostenuto che i suoi post «incitavano alla violenza e minavano l’ordine pubblico», invocando il famigerato Decreto n. 54, emanato nel 2022 per combattere i crimini informatici e divenuto in breve tempo lo strumento preferito del regime per mettere a tacere i dissidenti.

L’uomo, secondo il suo avvocato Oussama Bouthelja, non era un militante politico né un agitatore. Aveva subito un grave incidente sul lavoro, viveva in condizioni economiche precarie e aveva usato i social per attirare l’attenzione delle autorità sulla propria situazione. «Non è un criminale», ha scritto il legale, «ma un cittadino vulnerabile sfruttato per mandare un messaggio di paura al resto della popolazione». Arrestato nel gennaio 2024, Chouchane è rimasto in carcere per venti mesi in attesa di giudizio.

La pena di morte in Tunisia esiste solo sulla carta: non viene applicata dal 1991. Ma la condanna di Chouchane segna un salto di qualità nella regressione autoritaria iniziata tre anni fa, quando Saied ha sciolto il Parlamento e concentrato su di sé tutti i poteri. Da allora, decine di oppositori, giornalisti e attivisti sono stati incarcerati con accuse di “complotto contro lo Stato” o “diffusione di notizie false”. L’Ordine degli avvocati ha denunciato una «criminalizzazione della parola», mentre le principali organizzazioni internazionali per i diritti umani parlano ormai di deriva irreversibile.

Il Decreto 54, che punisce con pene fino a dieci anni di carcere la diffusione di contenuti ritenuti lesivi della sicurezza pubblica o della reputazione dei funzionari statali, è stato definito da Human Rights Watch «una clava contro la libertà di espressione». Amnesty International – che ogni tanto, grazie al cielo, alza il capo dal suo dossier anti-israeliano – lo considera incostituzionale, privo di limiti chiari e aperto a qualsiasi interpretazione repressiva. Dal 2022, oltre venti persone – tra cui giornalisti e avvocati – sono state incriminate per post, articoli o commenti online.

Il caso Chouchane, però, rompe ogni misura. Secondo la ONG Skyline International for Human Rights, il giudice che ha firmato la sentenza è stato trasferito subito dopo il verdetto, alimentando i sospetti di pressioni politiche. La stessa organizzazione ricorda che un tribunale specializzato aveva inizialmente escluso il carattere “terroristico” delle accuse, ma la procura ha poi ripresentato il fascicolo in sede ordinaria, ottenendo un processo lampo.

Nelle ore successive alla condanna, numerosi utenti tunisini hanno pubblicato post di solidarietà – spesso criptici o anonimi, per timore di rappresaglie. Alcuni giornali indipendenti, come Al-Maghreb e Nawaat, hanno parlato apertamente di «esecuzione simbolica della libertà di parola». Da Bruxelles e Parigi sono arrivate le prime note di protesta: la Commissione europea ha espresso «grave preoccupazione», mentre Reporter sans frontières ha chiesto la revoca immediata della sentenza.

Non è chiaro se la pena verrà mai eseguita, ma non è questo il punto. L’obiettivo, sostengono gli osservatori, è diffondere il terrore preventivo. Bastano poche parole scritte da un uomo isolato e disperato perché il potere reagisca come se fosse in gioco la sopravvivenza dello Stato. La condanna a morte, dunque, non è tanto contro Chouchane quanto contro la possibilità stessa di parlare.

A quattordici anni dalla rivoluzione del gelsomino, la Tunisia che prometteva libertà e dignità è tornata al linguaggio della paura. Oggi un solo post può valere la vita di un uomo. E il silenzio, ancora una volta, vale più della verità.


Tunisia, condannato a morte per un post su Facebook
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