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Trump, Netanyahu e la pace che smaschera gli ipocriti

Giuliano Cazzola

Tempo di Lettura: 4 min
Trump, Netanyahu e la pace che smaschera gli ipocriti

Ci auguriamo che il percorso di pace intrapreso a Gaza prosegua lungo tutti i venti punti di Trump. Avevo iniziato la frase con la parola “tutti”, ma poi l’ho cancellata, perché soprattutto a sinistra vi sono tanti che, in caso di cessazione del conflitto, non saprebbero più come passare il tempo e per cosa manifestare — visto che dell’altra guerra in corso in Europa, quella in Ucraina, non gliene può fregare di meno. E soprattutto non se la sentirebbero di trattare Putin come Netanyahu.

Devono allora impostare diversamente le campagne elettorali; magari disdire anche i contratti stipulati con le compagnie di navigazione per i viaggi delle tante “flotille” incaricate di “forzare il blocco illegittimo” con il pretesto di portare aiuti alla popolazione palestinese. Ma soprattutto non possono più demonizzare Netanyahu, se dimostra di mantenere i patti una volta ottenuto il rilascio degli ostaggi.

Sappiamo che la stessa regola non varrebbe per Hamas, dal momento che i suoi atti di ostilità sono — secondo Francesca Albanese — “reazioni liberatorie dal colonialismo israeliano”. Tuttavia, comunque proceda la trattativa, il premier israeliano è già stato consegnato in catene alla storia; beninteso, a quella politicamente corretta, sulla base delle norme della cancel culture.

Per quanto mi riguarda, credo che Netanyahu abbia delle gravi responsabilità a cui essere chiamato a rispondere: ma tutte intervenute prima del tragico 7 ottobre. Non è accettabile che Israele non si fosse accorto della costruzione della città sotterranea e non avesse intercettato i preparativi dell’aggressione in massa. Sappiamo che vi è stata una lunga sequela di dimissioni di responsabili per omissione, ma Netanyahu non può sentirsi assolto da come ha condotto le operazioni fino ad oggi.

Il premier israeliano, a mio avviso, ha collezionato non dei demeriti, ma dei meriti — sia verso il suo popolo che verso l’Occidente. La gravità dell’operazione del 7 ottobre per la sicurezza dello Stato ebraico non va sottovalutata: Israele non ha dovuto reagire soltanto al pogrom di Hamas, ma a un’offensiva concentrica predisposta su ben sette fronti e coordinata dall’Iran, la più pericolosa dopo la guerra del Kippur del 1973. Con una sola differenza: gli assalitori non erano truppe regolari, ma bande armate fino ai denti che si erano imposte con la violenza anche all’interno degli Stati che le ospitavano, fino a condizionarne la sovranità.

Si pensi alla Siria e al Libano: nel primo caso è stato cacciato Assad e i russi sono stati indotti a sloggiare dal Mediterraneo; nel secondo, con il ridimensionamento di Hezbollah, si è ripristinato il potere legittimo di quel Paese. Lo stesso discorso vale per lo Yemen e per gli Houthi, mentre l’IDF è intervenuto a difendere i drusi. Con Hamas i fatti sono sotto i nostri occhi.

Ma il vero salto di qualità è stato quello di attaccare non solo i burattini, ma direttamente il burattinaio: la Repubblica teocratica iraniana e il suo programma nucleare. Tutto ciò in un contesto in cui è stata salvaguardata la normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, il cui fallimento era il vero obiettivo del pogrom sanguinario. E in una condizione di piena normalità democratica all’interno dei confini di Israele: nessun dissenso è stato represso o coartato, i cittadini palestinesi hanno continuato a condurre la loro vita sicuri e protetti dalla legge.

Quindi, quanti marciano per la pace (giudico quella del 4 ottobre la più grande manifestazione antisemita dopo i raduni organizzati da Hitler a Norimberga) dovrebbero capire il ruolo che hanno svolto i diversi protagonisti e distinguere tra chi ne è nemico e sabotatore e chi invece combatte per quella causa.

È paradossale che tanta parte dell’opinione pubblica occidentale abbia, al dunque, solidarizzato con i propri nemici sconfitti, criticando gli amici che li avevano combattuti anche per loro.

Vogliamo dirla tutta: il Premio Nobel per la Pace dovrebbe essere riconosciuto — a pari merito — a Donald “belli capelli” Trump e a Bibi “riportino” Netanyahu.

Un’ultima considerazione: quei bastardi che pretendono dai nostri e dai loro concittadini ebrei di “prendere le distanze” da Netanyahu, se non vogliono correre rischi per la loro incolumità, sono i medesimi che si guardano bene dal rivolgere la stessa sciagurata richiesta ai palestinesi ospiti in Italia (che peraltro pretendono di inneggiare nelle piazze al 7 ottobre) o a quelli accolti per motivi umanitari nei nostri ospedali.


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