Negli Stati Uniti l’intervista è già considerata una bomba diplomatica. Jared Kushner e Steve Witkoff, due figure chiave del team di Donald Trump nei negoziati tra Israele e Hamas, sono tornati davanti alle telecamere per raccontare cosa accadde dietro le quinte dell’ultima fase di mediazione americana. Lo hanno fatto a 60 Minutes, il più longevo e autorevole programma d’inchiesta della televisione americana, in onda dal 1968 sulla CBS. L’intervistatrice è Lesley Stahl, veterana del giornalismo televisivo, nota per i suoi colloqui senza sconti con presidenti e capi di Stato.
L’atmosfera del servizio è tesa, quasi ostile. Witkoff e Kushner, entrambi fedelissimi di Trump, appaiono questa volta come testimoni scomodi. Raccontano una storia che, se confermata, incrinerebbe la versione ufficiale di un’alleanza senza crepe tra l’ex presidente americano e il governo di Benjamin Netanyahu. Secondo loro, in una fase avanzata dei colloqui indiretti con Hamas, Israele avrebbe bombardato a Doha, la capitale del Qatar, un gruppo di esponenti del movimento islamista impegnati in colloqui riservati con mediatori arabi. È l’episodio che loro chiamano “la notte di Doha”.
Il raid, avvenuto all’inizio di settembre 2025, ha avuto conseguenze che vanno ben oltre il danno immediato. «Il Presidente era furioso», racconta Witkoff. «Credeva che gli israeliani stessero perdendo il controllo e che fosse il momento di fermarli prima che facessero qualcosa di contrario ai loro interessi a lungo termine». Poi la frase più dura: «Netanyahu, gli israeliani, hanno bombardato i mediatori di pace. Hanno bombardato la squadra dei negoziatori». Una dichiarazione pesante, perché non riguarda solo l’uso della forza, ma la credibilità politica di Israele come interlocutore.
Secondo i due emissari di Trump, quel raid ha avuto «un effetto metastatico». I qatarioti, che erano il canale principale di contatto con Hamas, si sono tirati indietro. Gli egiziani e i turchi hanno fatto lo stesso. «Abbiamo perso la fiducia dei mediatori», ammettono. In poche ore si è dissolta la rete di relazioni che, seppur fragile, teneva in vita un filo di dialogo.
La ricostruzione, seppure filtrata dal punto di vista di chi oggi tenta di riscrivere la propria parte di storia, mostra un dato politico chiaro: Trump non era più disposto a seguire Netanyahu a occhi chiusi. Dentro la sua squadra cresceva il sospetto che Israele stesse compromettendo le proprie stesse possibilità di sicurezza a lungo termine.
A Washington, l’intervista è stata letta come l’anticipazione di una resa dei conti interna al campo trumpiano in vista delle elezioni. Ma per il Medio Oriente resta un segnale più concreto: la “notte di Doha” segna il punto in cui, ancora una volta, la diplomazia è stata travolta dalla guerra. E chi avrebbe potuto parlare è rimasto sepolto sotto le macerie.
Trump, Israele e la notte di Doha
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Il male travestito da normalità