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Trump e i 21 punti per Gaza: svolta o illusione?

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Trump e i 21 punti per Gaza: svolta o illusione?

Da quando è presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ci ha abituato a colpi di scena continui: la sua azione piomba come un macigno nello stagno immobile della politica mondiale, sconquassandone equilibri e rapporti. Le sue dichiarazioni vengono spesso smentite poche ore dopo, e molte delle sue promesse si risolvono in un nulla di fatto.

Nel caso, però, dei 21 punti per una possibile soluzione della guerra di Gaza — e visto il preliminare consenso di alcuni paesi arabi più orientati a ristabilire relazioni economiche e politiche solide con l’Occidente, trascurando quindi qualunque accondiscendenza verso Hamas — qualche motivo di speranza non sembra infondato.

Il rilascio degli ostaggi, vivi e morti, del tutto ignorato dalle piazze propal; l’invio immediato di aiuti umanitari illimitati gestiti dalle Nazioni Unite; la raccolta delle armi di Hamas con il coinvolgimento anche di paesi arabi; la chiara esclusione dei terroristi da qualunque futuro assetto di governo; la creazione di un’autorità neutrale per l’amministrazione provvisoria di Gaza e per la ricostruzione; il ritiro graduale delle truppe israeliane e la definizione di un corridoio di sicurezza intorno a Gaza: sono tutti elementi che segnano una possibile svolta. Una prospettiva che potrebbe restituire a quell’area martoriata e alla sua popolazione una ragione per credere nella fine del conflitto.

Gli Stati Uniti si impegnerebbero inoltre a garantire la non annessione della Cisgiordania, come vorrebbero invece i falchi del governo israeliano. Un punto che sarà politicamente difficile per Netanyahu, la cui maggioranza si regge anche sul sostegno di quella componente.

Un ulteriore motivo di cauto ottimismo nasce dalla constatazione che stanare ciò che resta di Hamas, mescolato tra la popolazione civile e ancora capace di godere di un certo consenso, appare un obiettivo irraggiungibile. Quel che è stato raggiunto, piuttosto, è l’isolamento internazionale di Israele, cui viene attribuita univocamente la responsabilità delle decine di migliaia di morti, senza riconoscere — come un’analisi più accurata dovrebbe — i risultati ottenuti contro l’Iran, in Siria, contro Hezbollah e Hamas stesso.

I prossimi giorni saranno cruciali. Diranno se la politica internazionale saprà esprimere posizioni svincolate dalla mera convenienza elettorale di assecondare le piazze. Solo così si potrà credere che una svolta alla guerra sia possibile, forse probabile, certamente necessaria.


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