Ci sono immagini che non si dovrebbero vedere. E quelle che vengono da Al-Fashēr sono sicuramente tra queste. E’ però vero anche il contrario, e ciò non per un’incitazione al voyerismo macabro ma perché non possiamo continuare ad ignorare il dramma inaccettabile che si sta consumando in Sudan. Le immagini parlano di corpi allineati fuori da un ospedale e di uomini che passano tra i cadaveri per assicurarsi che non ci sia nessuno ancora vivo. È la scena finale di un massacro annunciato. Da settantadue ore la città del Darfur è preda delle Forze di Intervento Rapido, la milizia ribelle che da due anni tiene in ostaggio un Paese intero con un bilancio terrificante: più di duemila civili uccisi, molti a sangue freddo, donne e bambini inclusi.
Dietro l’orrore c’è una catena di complicità e di interessi. Gli Emirati Arabi Uniti, alleati di mezzo mondo e simbolo del lusso globalizzato, hanno deciso che il Sudan è un investimento e così hanno inviato armi e droni insieme a veicoli militari e artiglieria pesante. Tutto ciò non succede di nascosto, tutt’altro. Tutti sanno ma a nessuno conviene dirlo. I convogli arrivano, gli aerei atterrano, i ribelli ringraziano. È la diplomazia economica punto due: commercio d’armi travestito da politica di stabilizzazione.
La logica è quella di mantenere il caos a distanza di sicurezza e in un continente dove l’oro, il gas e le rotte terrestri contano più dei trattati, il Darfur serve a qualcosa. La guerra come piattaforma logistica e la morte come equilibrio geopolitico. Ogni arma spedita da Abu Dhabi da una parte prolunga la guerra, ma dall’altra garantisce influenza. Siamo dunque in presenza non di crudeltà gratuita ma di una gestione strategica della violenza.
Il Sudan è letteralmente al collasso: centocinquantamila i morti, dodici milioni di sfollati, il Paese svuotato. I ribelli dell’RSF – la milizia paramilitare sudanese, responsabile del genocidio in Darfur – si muovono come un esercito privato, un franchising dell’orrore. Mettono a ferro e fuoco villaggi, filmano gli omicidi e postano i video. Forse tutto questo ci ricorda qualcosa. Per di più non temono sanzioni né tribunali, perché sanno che nessuno punirà chi li arma. E hanno ragione.
La guerra del Sudan è la dimostrazione perfetta di come funziona oggi la politica internazionale: gli stessi governi che condannano i massacri li finanziano con contratti paralleli; quelli che parlano di pace stipulano accordi commerciali con chi la guerra la fa per mestiere. Tutti indignati, nessuno responsabile.
L’amministrazione americana, che pure conosce ogni dettaglio della filiera delle armi, continua a voltarsi dall’altra parte. Meglio non rovinare rapporti strategici con un partner che investe, compra e ospita basi. Così il crimine resta senza nome, e la diplomazia si riduce a un comunicato di condanna.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un Paese cancellato dalla carta geografica e un sistema internazionale che si scopre sempre più a suo agio nell’ipocrisia. Non è un conflitto dimenticato. È un conflitto conveniente che finché sarà tale, continuerà ad ardere.
Sudan, il massacro che conviene
 Sudan, il massacro che conviene
 
                        
                     
        
     
        
     
        
     
        
     
        
     
        
     
        
    