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Smontaggi – Social e Gaza: manipolare immagini, manipolare il racconto

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Smontaggi – Social e Gaza: manipolare immagini, manipolare il racconto

A furia di scrollare, aprire social, chiuderci nel cruccio, infuriarci, qualcosa abbiamo imparato: i social non mostrano la guerra, al massimo mostrano un feed. Gaza e Cisgiordania entrano in casa in verticale, con tanto di colonna sonora, sottotitoli auto-generati e strilli ad effetto. Detto in soldoni, il formato schiaccia il contesto: primi piani, dieci secondi di strazio, nessuna informazione su chi filma, né quando, né dove, né perché. Il risultato non è informazione, ma percezione guidata. E stiamo parlando solo dei contenuti “veri”. Altro capitolo – che prima o poi affronteremo – riguarda i “fatti” inventati e spacciati per verità rivelate.

Torniamo a noi, al ciclo di vita di una clip: uno scatto o un video breve, di solito in bassa qualità, parte da un canale locale su Telegram o da un profilo attivista per poi essere rilanciato su piattaforme diverse con tre ingredienti: taglio più stretto, rallenty per aumentare il tempo di visione, didascalia assertiva (“oggi”, “adesso”, “vicino a”). In poche ore spuntano versioni con logo di pagine aggregatrici, call-to-action e hashtag militanti. L’originale si perde, la copia domina.

Un esperto mi spiega che ci sono almeno tre livelli di manipolazione. Primo: si riprende ciò che massimizza l’impatto emotivo (macerie, sangue, urla) ed esclude ciò che introduce complessità (miliziani, origine del fuoco, direzione dei colpi). Secondo: si monta e si tagliano i secondi che contraddicono la didascalia, si ripete il frame cruciale, si alza l’audio delle sirene. Terzo: la rititolazione. Lo stesso video diventa “Gaza”, “Hebron”, “Jenin” a seconda del target, e un solo fatto si moltiplica in tre storie incompatibili.

Nella cassetta degli attrezzi: metadati rimossi alla pubblicazione, quindi nessun orario né geotag; angolazioni strette che impediscono di vedere cartelli stradali o targhe; audio coperto da musica; compressioni successive che cancellano dettagli utili alla geolocalizzazione.

In parole povere, è il feed – il flusso di contenuti che la piattaforma presenta – a decidere. Gli algoritmi privilegiano tempo di visione, tasso di completamento, commenti e condivisioni. La rabbia, lo sapevano già i greci, è carburante perfetto: più conflitto sotto il post, più spinta all’engagement. Ogni visualizzazione porta affiliazioni, donazioni, sponsorizzazioni. Nascono reti di pagine che vivono di ripubblicazioni incrociate, si scambiano materiali e pubblico, uniformano titoli e parole chiave. L’incentivo non è verificare, ma pubblicare per primi la versione che emoziona di più. Il controllo della notizia arriva tardi e, quando arriva, è meno interessante del dramma iniziale.

A Gaza l’accesso diretto dei giornalisti è intermittente e mediato; in Cisgiordania gli scontri si consumano in aree dove la stampa arriva dopo. Il vuoto viene riempito da attivisti, portavoce, miliziani, residenti, ong, forze di sicurezza: ognuno pubblica ciò che serve al proprio obiettivo. Senza cornice, il pubblico non distingue tra testimonianza, propaganda, esercizio d’immagine o documentazione probatoria.

Qualche indizio? Didascalie in maiuscolo, avverbi assoluti (“sempre”, “mai”), promesse di verità proibita (“questo non ve lo faranno vedere”). Commenti-fotocopia che compaiono in massa sotto post opposti. Account nati da poco, pochi contenuti non bellici, salti improvvisi di follower. Linguaggi visivi ripetuti: la barella come simbolo, il fumo come prova, il bambino come sigillo morale.

Ed è il cervello a riempire i vuoti: se un video mostra solo l’esito, tocca a te immaginare la causa. Se la clip finisce sul climax, sei tu a decidere che il climax è la storia. Se tre account diversi pubblicano lo stesso frammento con tre titoli diversi, molti lettori concludono che “ovunque accade la stessa cosa”.

Conclusione: non basta “essere informati” se l’informazione è confezionata per farci sentire, non per farci capire. Serve una disciplina del dubbio: freddo nelle dita, caldo nel cuore, e riflessione prima di condividere. Solo così (forse) si smonta il meccanismo che ci smonta.


Smontaggi – Social e Gaza: manipolare immagini, manipolare il racconto
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