L’etichetta piace perché sintetizza tutto in una parola. Il termine “coloniale” sta in equilibrio tra verdetto morale e scorciatoia analitica: c’è un colono, c’è un colonizzato, fine della storia. Peccato che la storia, qui, non si lasci inchiodare. Il colonialismo classico ha tratti riconoscibili: una metropoli che invia coloni per estrarre risorse o proiettare potere, una gerarchia razziale amministrata dal centro, un rapporto organico col “madrepatria” che decide, finanzia, richiama. In Palestina tutto questo manca, è sempre mancato. Non c’è una Londra o una Parigi ebraica che governa a distanza, non c’è una compagnia delle Indie del popolo ebraico, non c’è oro, caucciù o zucchero da spremere. Semmai è successo l’esatto contrario: una diaspora senza Stato che prova a ricostruire sovranità in una terra con cui intrattiene un legame storico e religioso plurimillenario, e lo fa contro l’inerzia di tutte le potenze, pagando spesso con la vita dei propri pionieri.
Il Mandato della Società delle Nazioni non fu una licenza d’impero per conto terzi ma un impegno internazionale a favorire la “casa nazionale ebraica” tutelando i diritti civili e religiosi di tutti. Non un foglio bianco, dunque, bensì un quadro giuridico che riconosceva titoli storici e finalità politiche, dentro cui il movimento sionista acquistò terre sul mercato, costruì istituzioni civili, scuole, sindacati, ospedali, e una proto-amministrazione che precedette di anni l’indipendenza. La metropoli di Israele, a guardar bene, è Gerusalemme: non esiste un altrove che diriga, incassi e decida. I flussi materiali sono rovesciati rispetto al colonialismo: non estrazione, ma investimenti, risorse che entrano per creare industria, agricoltura, infrastrutture.
Anche la composizione demografica smentisce lo schema comfort. Tra il 1948 e i primi anni Settanta, circa metà degli ebrei d’Israele proviene dal mondo arabo-islamico, espulsi o spinti fuori da Iraq, Yemen, Siria, Egitto, Libia, Marocco, Tunisia, Algeria. Coloni di quale impero, esattamente? In parallelo, l’ebraico torna lingua viva e vivace, non strumento di dominio importato, ma rinascita culturale di un popolo che ritesse la propria continuità storica. È una dinamica di ritorno e ricostruzione, non di piantagione.
Resta il nodo duro: la presenza di un’altra popolazione con aspirazioni nazionali. È il punto che il colonialismo, come lente unica, distorce. In molti processi di indipendenza del Novecento, due collettività hanno rivendicato titoli, memoria, diritti. La politica – male, tardi, talvolta con violenza – ha cercato accomodamenti. Qui la semplificazione moralistica sostituisce l’analisi: se il conflitto esiste, dev’esserci un colpevole strutturale; “coloniale” serve a impedirne la comprensione. Non si negano errori, soprusi, abusi: si rifiuta la caricatura che riduce un conflitto nazionale complesso a sceneggiatura di occupanti e nativi, come se un secolo di storia, di decisioni reciproche, di guerre e compromessi mancati fosse solo il risultato di un piano dall’alto.
C’è poi un test materiale: cosa produce il presunto “colonialismo” israeliano? Non convogli di risorse verso una capitale straniera, non monopolî concessori, non manodopera coatta per piantagioni oltremare. Produce, discutibilmente e conflittualmente, cittadinanza, tasse, esercito di leva, Corte suprema, alternanza politica, una società multietnica che mescola ebrei provenienti da tre continenti e minoranze arabe con diritti civili e politici. Tutto perfetto? No. Ma il metro di giudizio non può essere quello dell’Arcadia: deve essere quello comparativo delle liberazioni nazionali reali. Lì, la tesi “coloniale” scricchiola.
Infine, la prova controfattuale: se Israele fosse un progetto coloniale, cessata la convenienza la metropoli richiamerebbe uomini e capitali. Qui accade l’opposto: in guerra o in pace, le ondate vanno verso Israele, non via da Israele. Non è il segno di un’occupazione, ma di un radicamento. La critica alle politiche è legittima e doverosa; la formula “progetto coloniale” è una scorciatoia che suona bene quanto spiega male. Se vogliamo capire – e magari cambiare – il presente, bisogna abbandonare gli slogan e rientrare nella storia: due popoli, due racconti, molti errori, un futuro da negoziare. Tutto il resto è propaganda con un dizionario elegante ma impolverato.
Smontaggi. Perché “Israele è un progetto coloniale” è una sciocchezza
Smontaggi. Perché “Israele è un progetto coloniale” è una sciocchezza
 
                        
                     
        
     
        
     
        
     
        
     
        
     
        
     
        
    