Ogni giorno cifre che cadono come macigni: morti, affamati, bambini feriti. Ma la domanda vera resta ai margini: chi produce quei numeri? In larga parte le strutture sanitarie di Gaza, cioè Hamas. Non osservatori terzi, non laboratori indipendenti: l’organizzazione che ha governato la Striscia con il terrore e che il 7 ottobre 2023 ha firmato il massacro. Dati di parte, rilanciati per mesi come verità certificata.
Un esempio: le vittime civili. All’inizio si è parlato di oltre il 70 per cento di donne e bambini tra i morti. A maggio 2025 le stime sono state ridotte all’incirca della metà. Una correzione così netta racconta da sola quanto fossero gonfiati i primi conteggi. Eppure i report continuano a usare come base i registri del ministero della Sanità di Gaza. Se la sorgente è viziata, l’errore non è un incidente: è sistema.
Altro caso: la fame. Il sistema IPC, lo standard usato da agenzie ONU, governi e ONG, certifica il Governatorato di Gaza al livello 5, carestia conclamata. Ma nello stesso tempo ammette buchi e limiti: Nord Gaza non è classificato per mancanza di dati ed è stimato gravissimo; altrove prevale l’emergenza alimentare. Si certifica dove ci sono numeri, si stima o si tace dove i numeri mancano. Nel frattempo, sul palcoscenico pubblico, la formula diventa «tutta la Striscia in carestia». Non è ciò che dicono i documenti.
Non basta ancora? Gli aiuti. Nella prima metà di agosto sono entrate circa 55.600 tonnellate di cibo. Non briciole: un flusso reale. Il collo di bottiglia è la distribuzione. In luglio solo il 13 per cento dell’assistenza ha raggiunto la destinazione prevista; in altri periodi si è parlato di oltre il 95 per cento dei carichi scaricati da folle o intercettati lungo le rotte. Le attribuzioni variano, il risultato no: una quota enorme si disperde prima di arrivare ai civili. E non serve grande intuito per capire chi, tra gli attori armati, abbia la capacità organizzata di appropriarsi dei carichi.
Questo punto, che spiega la distanza tra arrivi e bocche sfamate, quasi mai finisce nel titolo. La formula di comodo è «mancano gli aiuti». No: gli aiuti entrano; il nodo cruciale è portarli a destinazione dentro un sistema che usa i civili come scudi. Israele, dal canto suo, pubblica i flussi quotidiani: in genere tra 220 e 320 camion al giorno via Kerem Shalom e Zikim, con oscillazioni dovute alla sicurezza. Si possono contestare? Certo. Ma per smentirli servono registri altrettanto trasparenti, non slogan e comunicati di parte.
In discussione non è la sofferenza dei civili. È in discussione la provenienza dei numeri che la raccontano. Se i bollettini internazionali si reggono su dati di un attore interessato a manipolarli, non è informazione: è propaganda travestita da statistica. L’uso disinvolto di parole estreme come genocidio o carestia totale senza basi metodologiche solide trasforma il linguaggio scientifico in arma politica.
In guerra i numeri pesano quanto le bombe: dettano l’agenda diplomatica, orientano l’opinione pubblica, spostano voti. Quando nascono da una parte in causa e vengono avallati da un timbro istituzionale, la politica si maschera da scienza e chi chiede verifiche diventa «negazionista della sofferenza». È qui che si misura il rispetto dovuto alle vittime: pretendere verità nei dati, archivi aperti, controlli indipendenti, serie storiche coerenti, confronto obbligatorio con le contabilità israeliane su aiuti e vittime.
La battaglia non si combatte solo nei tunnel o nei cieli: si combatte anche nella nota a piè di pagina di un rapporto e in un titolo di giornale. Se i numeri sono falsi o distorti, l’arma colpisce la coscienza di chi legge. Forse è venuto il momento di strappare la maschera ed esigere la fonte, la metodologia, l’errore dichiarato. Il resto è rumore. E di rumore ne abbiamo già a sufficienza.
Smontaggi – ONU e Hamas: chi scrive i rapporti su Gaza?
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