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Smontaggi – Normalizzati senza megafono: Emirati, Marocco, Bahrein

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 3 min
Smontaggi – Normalizzati senza megafono: Emirati, Marocco, Bahrein

Ogni giorno dichiarazioni infuocate, richiami agli ambasciatori, comunicati indignati. Poi si spegne il microfono e restano le agende. Qui sta la notizia: gli Stati arabi che hanno normalizzato con Israele non hanno smontato l’infrastruttura dei rapporti, semmai hanno abbassato il volume. La vetrina appare congelata, le luci spente, ma nel retrobottega si continua a lavorare.

Gli Emirati sono un esempio da manuale. In pubblico la postura è severa, in privato il calcolo resta freddo: energia, acqua, sanità, cybersecurity, agritech, mobilità, logistica. La normalizzazione non è un vezzo ideologico ma una rete di progetti, protocolli tecnici e contratti a lungo termine: non si resettano con un tweet, si rimodulano, magari cambiando nome. La diplomazia del non detto tiene insieme due frasi apparentemente inconciliabili: la condanna politica e la cooperazione funzionale.

Il Bahrein, piccolo ma strategico, sta tra l’incudine e il martello: la minaccia iraniana da una parte e il bisogno di sicurezza interna dall’altra. In pubblico può alzare la voce, ma dietro le quinte sa che la protezione delle infrastrutture, le barriere antidrone e il contrasto ai proxy filo-iraniani non si improvvisano.

Il Marocco gioca una partita ancora più chiara: il dossier che conta è il Sahara Occidentale. Tutto il resto è subordinato all’interesse nazionale. Cooperazione tecnologica, agricoltura di precisione, gestione dell’acqua, strumenti per la sicurezza dei confini: la normalizzazione ha aperto sportelli che non conviene richiudere. I voli si sospendono, gli annunci si ritoccano, ma i canali che portano soluzioni e know-how restano. Non è romanticismo geopolitico, è ingegneria degli interessi.

Come funziona? Con la grammatica del commercio e della tecnica: holding e sub-holding, consorzi misti, hub logistici che cambiano scalo, “re-routing” di componenti e software, registri che parlano la lingua delle zone franche più che quella delle conferenze stampa. Le merci non hanno bandiere, ma polizze. I progetti non hanno ideologia, ma cronoprogrammi, penali e tappe-chiave. Se una soluzione riduce perdite idriche, abbassa i costi energetici o chiude una falla di sicurezza, torna subito all’ordine del giorno.

Perché regge? Perché offre valore: acqua desalinizzata e reti intelligenti per Paesi assetati; sistemi medici e biotecnologici per chi diversifica il proprio modello; difesa che non si improvvisa quando arrivano sciami di droni; porti e aeroporti che funzionano con standard globali; filiere alimentari più resilienti. La normalizzazione, tolta la patina delle foto di famiglia, è soprattutto scambio di utilità. E l’utilità, quando entra a regime, crea dipendenze reciproche.

Si dirà: c’è un costo politico, e la doppia lingua tra palcoscenico e backstage irrita chi vorrebbe linearità. Ma gli apparati hanno imparato a navigarla. “Sospendiamo”, “rivaluteremo”, “condanniamo”: verbi che congelano la scena, mentre la macchina non si ferma. Le piazze vanno rassicurate, le opinioni pubbliche placate, i dossier domestici tenuti a bada. È il prezzo, non il freno. E nessuno smantella le infrastrutture portanti: non si chiude una centrale per fare pace con lo slogan del giorno.

C’è poi il capitolo silenzioso ma più pesante: la sicurezza. Scambi d’informazioni, allarmi tempestivi, pratiche di mitigazione contro la minaccia iraniana e i suoi satelliti. Qui cooperare non è un vezzo, è un’assicurazione sulla vita. E le assicurazioni non si annullano con un comunicato. Il giorno in cui serve, la linea deve squillare. E squilla.

Chi racconta che «la normalizzazione è morta» confonde la scenografia con l’impianto elettrico. Non è ipocrisia: è politica reale. Smontare la favola del gelo totale serve a rimettere i fatti al loro posto. Le frasi cambiano, i cavi restano. E finché restano, i rapporti esistono. Anche quando il volume è al minimo.


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