Spariti senza essere mai entrati nel lessico ufficiale della parola “profugo”. Eppure tra la fine degli anni Quaranta e i primi Settanta, dalle città e dai villaggi del Nord Africa e del Medio Oriente si muove un popolo antico: ebrei di Baghdad, del Cairo e di Alessandria, di Tripoli e Bengasi, di Sana’a e Aden, di Damasco e Aleppo, di Tunisi, Rabat, Algeri, Casablanca. Nel giro di poco più di vent’anni, qualcosa come circa ottocentocinquantamila persone vengono spinte fuori da leggi d’emergenza, denaturalizzazioni, confische, pogrom a ondate.
Iraq è la parola che taglia la nebbia. Nel 1941 il Farhud annuncia la rottura: decine di ebrei uccisi a Baghdad, migliaia di negozi e case devastati. Dopo il 1948 le pressioni diventano sistema: arresti, impiccagioni esemplari negli anni Cinquanta, il passaporto come ricatto, poi la legge che offre la denazionalizzazione in cambio dell’esodo e, insieme, la confisca dei beni. In Egitto, prima il 1948 poi la crisi di Suez e il 1956 precipitano gli ebrei nel registro dei “nemici interni”: espulsioni, sequestri, letteralmente espulsioni con un bagaglio simbolico e la firma obbligata a rinunciare a tutto. In Yemen e Aden il clima si fa invivibile e Israele organizza un ponte aereo che oggi suona come racconto biblico e logistica moderna: famiglie intere portate via dal deserto, con in tasca il nulla e negli occhi il sole. In Libia, dopo il 1967, Tripoli e Bengasi diventano trappole: assalti, sinagoghe bruciate, partenze precipitose; chi resta scoprirà presto che “restare” non è più un’opzione.
Siria e Libano, tra controlli e umiliazioni, fanno evaporare comunità che avevano dato commercianti, artigiani, musicisti, intellettuali. In Maghreb il filo è più lento ma teso: indipendenze, arabizzazioni, nazionalizzazioni, atmosfera ostile; il risultato è identico, porte che si chiudono dietro a chi esce.
Il messaggio è brutale: puoi restare senza diritti o andartene senza proprietà. Molti scelgono la seconda ipotesi, che non è una scelta. Arrivati soprattutto in Israele, ma anche in Europa e nelle Americhe, questi profughi non entrano in alcuna agenzia speciale, non acquisiscono lo status di eterni rifugiati; vengono assorbiti, spesso in condizioni dure, nei campi di transito che diventano quartieri, nei lavori umili che diventano mestieri, nelle periferie che diventano città. La povertà è reale, la discriminazione interna talvolta pure, ma l’obiettivo non è la gestione del dolore: è l’integrazione piena, nel giro di una generazione.
C’è qui una asimmetria che spiega il silenzio. Mentre il resconto occidentale fissa la camera sul dramma dei profughi palestinesi – reale, doloroso, politicamente strumentalizzato ma reale – l’altra metà del quadro scompare. Spariscono le case e le sinagoghe svuotate, spariscono i registri delle confische, sparisce l’idea elementare che due tragedie hanno attraversato lo stesso tornante storico, e che il discorso pubblico, se vuole essere adulto, deve contenerle entrambe. Non si tratta di compensare una sofferenza con un’altra, né di giocare a bilanciare colpe e pene; si tratta di riconoscere che la mappa dell’esodo ebraico dal mondo arabo è parte sostanziale della storia mediorientale, e che ignorarla rende cieca qualsiasi pretesa di giustizia.
A lungo, l’Europa ha preferito non vedere. Per comodità ideologica, per pigrizia, per il fascino di una semplicità morale che assegna ruoli fissi: vittime una volta per tutte, colpevoli una volta per tutte. Ma la storia non è un tribunale di TikTok. Dire che centinaia di migliaia di ebrei furono spinti fuori da Paesi dove abitavano da generazioni, che i loro beni furono sottratti, che le comunità furono cancellate, non toglie un grammo al dolore palestinese; toglie invece al discorso la sua comoda menzogna.
E se oggi vogliamo parlare di diritti, di risarcimenti, di memorie, bisogna riaprire quel fascicolo, rimettere i nomi sui registri, riportare le date sulle mappe. Perché in ogni quartiere yemenita di Rishon LeZion, in ogni via di originari di Tripoli a Tel Aviv, in ogni famiglia che ricorda il nonno di Baghdad o la nonna di Tunisi, c’è la prova vivente di una verità elementare: il secolo scorso ha prodotto due esodi che si guardano da sponde diverse. Continuare a negarne uno non rende più giusto l’altro; rende solo più facile, per chi usa la memoria come arma, manipolare il presente.
Smontaggi. La storia dimenticata dei profughi ebrei dai paesi arabi (1948–anni ’70)
Smontaggi. La storia dimenticata dei profughi ebrei dai paesi arabi (1948–anni ’70)