C’è una parola che, nei conflitti bellici contemporanei, ha perso ogni senso pur continuando ad accreditarsi come giudice supremo: proporzionalità. Una parola agitata come una clava, non usata come un concetto. Serve a stabilire chi è colpevole prima ancora di capire che cosa sia successo. E quasi sempre serve a emettere una sentenza di condanna contro lo Stato di Israele.
Vale la pena fermarsi un momento e smontarla. Nel diritto internazionale umanitario la proporzionalità non ha nulla di emotivo o morale. Non riguarda il numero dei morti, non stabilisce una simmetria aritmetica tra danni subiti e danni inflitti. La proporzionalità nasce come criterio tecnico: un’azione militare è illegittima se il danno collaterale previsto ai civili è eccessivo rispetto al vantaggio militare concreto e diretto atteso. Punto.
Quindi: non “rispetto alla sofferenza dell’altro”, non “in rapporto alle immagini”, non “secondo la sensibilità dell’opinione pubblica occidentale”. È una valutazione ex ante, non un conteggio ex post. Si giudica ciò che si sapeva e si poteva ragionevolmente prevedere prima dell’azione, non ciò che appare dopo su uno schermo. E soprattutto: la proporzionalità non obbliga uno Stato a farsi uccidere con moderazione.
Questo è il diritto. Tutto il resto sono chiacchiere, sciocchezze e — peggio — infamità.
Nel discorso mediatico, invece, la proporzionalità è diventata un sinonimo elegante di “stai reagendo troppo”. Troppo rispetto a chi? A cosa? A quale metro? Nessuno lo dice. È una parola vuota, riempita di volta in volta con indignazione selettiva. Se Hamas massacra civili, la questione è il “contesto”. Se Israele risponde, la questione diventa immediatamente la proporzionalità. Se un’organizzazione terroristica usa scuole, ospedali e quartieri civili come infrastrutture militari, questo dettaglio sparisce. Rimane solo il risultato finale: decontestualizzato, astratto, moralizzato.
Ed è qui che, guarda caso, entra in gioco il doppio standard.
La proporzionalità non viene invocata quando gli Stati Uniti radono al suolo Raqqa per sconfiggere l’ISIS. Non viene brandita quando Mosul viene riconquistata casa per casa, con migliaia di morti civili. Non compare nei titoli quando la Russia bombarda Aleppo o Grozny. In quei casi si parla di “durezza”, di “necessità militare”, di “guerra urbana”. Con Israele no. Con Israele la guerra diventa un’aula di tribunale morale permanente. Qualcuno è in grado di spiegare perché?
La risposta è semplice: Israele non viene giudicato come uno Stato in guerra, ma come un imputato metafisico. Non deve solo difendersi: deve farlo in modo pedagogico, rassicurante, quasi edificante. Deve vincere senza far male, sopravvivere senza disturbare, reagire senza reagire davvero.
La proporzionalità, così usata, non è più un principio giuridico. È un dispositivo ideologico. Serve a spostare il fuoco dalla responsabilità di chi attacca alla colpa di chi si difende. Trasforma l’aggressione in dato di sfondo e la risposta in scandalo principale.
Smontata così, la parola perde la sua aura morale e mostra la sua funzione reale: non limitare la violenza, ma indirizzare la colpa. Non proteggere i civili, ma selezionare il colpevole giusto. E il colpevole giusto, guarda caso, è quasi sempre lo stesso.
Smontaggi. La proporzionalità come clava morale
Smontaggi. La proporzionalità come clava morale

