Nelle cronache sulla guerra a Gaza c’è un dettaglio che si accende e si spegne come un interruttore. Stiamo parlando dei tunnel di Hamas. Appaiono quando serve una foto da prima pagina, scompaiono quando si discute di “bombardamenti indiscriminati”, “ospedali sotto attacco” o “civili intrappolati”. Eppure quella rete sotterranea non è un’aggiunta tecnica ma il cuore strategico del conflitto, l’elemento senza il quale nulla di ciò che avviene in superficie si può capire davvero.
Oggi non si parla più di qualche decina di chilometri, ma di una vera città ipogea, e cioè fra i 350 e i 450 miglia di tunnel che corrispondono a oltre 560 chilometri scavati sotto case, scuole, mercati e moschee. Un sistema multilivello con ventilazione, corrente elettrica, depositi armi, stanze di comando e aree destinate agli ostaggi. È un’infrastruttura costruita in anni, a un costo stimato di centinaia di milioni di dollari, sottratti intenzionalmente a fognature, abitazioni ed ospedali. Gaza, in superficie, cade a pezzi mentre sottoterra, Hamas ha realizzato la propria fortezza.
La parte che più viene rimossa è l’integrazione deliberata dei tunnel nel tessuto civile. Accessi nascosti nei cortili, nei magazzini, nelle moschee, dentro edifici residenziali. In vari ospedali della Striscia sono stati individuati ingressi sotterranei mimetizzati nelle aree di servizio, fra le ambulanze, nei parcheggi. È un metodo sistematico e non certo un incidente: costruire la struttura militare dove la presenza di civili e infrastrutture protette trasforma ogni possibile attacco in un costo politico altissimo. Del resto Hamas lo sa da sempre e lo usa come scudo.
C’è poi la questione dei corpi. Quelli dei civili palestinesi usati come protezione e quelli degli israeliani che sono rimasti prigionieri nei tunnel. L’uso della popolazione come barriera umana è un crimine di guerra, ma nella conversazione pubblica si fa di tutto per convertirlo in una parentesi marginale, una necessità, un peccatuccio di poco conto. Dopo il 7 ottobre, Hamas ha perfezionato la sua tattica. Gli ostaggi venivano spostati continuamente attraverso la rete sotterranea, molte famiglie erano costrette a restare sopra i tunnel, i miliziani si posizinavano proprio nelle immediate vicinanze di scuole, moschee, cliniche. L’intero territorio è stato dunque modellato per trasformare ogni azione militare israeliana in un’inevitabile tragedia civile da esibire al mondo.
Un episodio recente mostra in modo lampante questa dinamica. A Rafah, è stato documentato un tunnel lungo oltre sette chilometri, con stanze, aree di comando e depositi, che correva sotto quartieri densamente abitati e perfino sotto strutture legate a organizzazioni internazionali. In quel labirinto, per anni, Hamas ha conservato il corpo di un soldato israeliano rapito e ucciso nel 2014. Eppure, nei titoli dei giornali occidentali, Rafah resta quasi esclusivamente “la città rasa al suolo”: la scoperta dello snodo sotterraneo scompare o viene ridotta a dettaglio tecnico, come se l’esistenza di un’intera caserma sotto i piedi dei civili fosse cosa irrilevante.
Il racconto farlocco del resto funziona solo se il tunnel rimane un’ombra. Appena lo si illumina, diventano inevitabili domande che disturbano: chi ha trasformato le strade di Gaza in soffitti di una base militare? Chi decide che il posto più sicuro per un centro di comando è sotto una scuola? Chi impedisce ai civili di evacuare quando le autorità israeliane aprono corridoi umanitari? Domande semplici, ma devastanti per chi vuole ridurre il conflitto alla favola del “più forte contro il più debole”. Se metà del conflitto avviene a 30 metri sotto terra, e se una delle parti ha costruito la propria infrastruttura militare dentro e sotto la vita quotidiana dei civili, allora raccontare solo ciò che accade in superficie equivale a fingere. Non è informazione ma vera e propria partecipazione, consapevole o meno poco conta, alla strategia di Hamas. E va anche detto in modo chiaro che la scelta dei tunnel è stata una scelta politica e non certo bellica. E’ stato un modo sconcio per trasformare la popolazione in barriera, la sofferenza in strumento e la morte in linguaggio diplomatico. Chi continua a ignorare questo fatto non ha mai protetto i civili ma li ha usati, esattamente come ha fatto e come continua a fare Hamas, per raccontare una storia comoda e falsa.
Smontaggi. La guerra dei tunnel che i media non vogliono vedere
Smontaggi. La guerra dei tunnel che i media non vogliono vedere

