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Smontaggi. Israele, anatomia di un paese ridotto in due righe

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Smontaggi. Israele, anatomia di un paese ridotto in due righe

Israele è sempre stato descritto – e continua ad esserlo – come un blocco compatto: due colori, due ruoli, due categorie. Coloni e soldati. Tutto il resto non conta, nemmeno se il paese fosse un plastico da telecamera e non un organismo vivente, mobile, in costante trasformazione. E dire la vita è proprio lì, in quel groviglio di identità che nessuno vede perché è più comodo ridurre, schiacciare, appiattire e, naturalmente, disprezzare.

Prendi i sefarditi arrivati dal Maghreb e dal Medio Oriente con valigie leggere e ferite pesanti, hanno costruito quartieri, scuole, interi municipi senza che nessuno li ringraziasse. Hanno portato musica, cucina, dialetti, rabbia sociale. Sono stati spina dorsale e bersaglio polemico allo stesso tempo. Eppure restano invisibili alle telecronache che si ostinano a fotografare “l’israeliano medio” come se esistesse davvero.
Poi ci sono i mizrachì, che i media confondono spesso con i sefarditi perché sforzarsi di capire la differenza è considerato un esercizio superfluo. Eppure parliamo di mondi diversi: baghdadì con biblioteche da far invidia, yemeniti con alle spalle tradizioni millenarie, comunità intere sopravvissute a pogrom, espulsioni, migrazioni forzate. In Europa vengono visti come “orientali”, in Israele sono parte della storia nazionale. Altrove, fanno prima: non li guardano affatto.

Gli etiopi sono un’altra storia ancora. Due operazioni aeree portate avanti con un coraggio quasi biblico, l’arrivo in un Paese che li voleva ma non era pronto ad accoglierli davvero. Sono cittadini israeliani da decenni e hanno in dote una memoria antichissima, una vita religiosa rigorosa, un senso del collettivo che in pochi hanno saputo capire e descrivere. Di solito compaiono nei servizi tv solo quando c’è tensione con la polizia, mai quando aprono imprese, mai quando diventano medici, mai quando vincono competizioni internazionali.

E poi i russi. Che a dir il vero russi non sono quasi mai, essendo più spesso ucraini, moldavi, bielorussi, o provenienti dai paesi baltici. Un milione di persone arrivate in un’ondata sola e in pieno collasso sovietico: ingegneri, fisici, scrittori, operai, ma anche con un certo rigore identitario che negli anni ha cambiato la politica israeliana molto più di quanto i commentatori ammettano. Di solito li vediamo catalogati come “elettorato di destra”. Comodo, sì. Vero? Non proprio, ma tanto fa.

Gli haredim meritano un capitolo a parte: dipinti sempre come un blocco monolitico, quando invece sono divisi da differenze interne feroci – dinastiche, teologiche, perfino estetiche. Ci sono gruppi che fanno opposizione radicale allo Stato e altri che lo sostengono con pragmatismo. Giovani che entrano nelle Forze armate, altri che avviano start-up, altri ancora che restano nelle yeshivot. Ma nella rappresentazione pubblica restano un’unica massa nera che ingombra lo schermo. Più che ignoranza, è pigrizia.

E i laici? In Occidente vengono presentati come “gli israeliani veri”, moderni, ironici, liberali, pronti a fare surf a Tel Aviv. Una cartolina simpatica, certo. Ma non basta a spiegare che molti di loro sono figli o nipoti di immigrati persiani, afgani, romanioti, tunisini, georgiani. Che dietro la loro identità “laica” c’è una stratificazione culturale profonda, non un’etichetta da lifestyle.

La verità è che Israele è un mosaico difficile da maneggiare, fatto di linee che si incrociano e si respingono, di memorie che non combaciano mai del tutto, di lingue che si stratificano in una stessa cucina. È un paese che discute in continuazione perché deve tenere insieme pezzi che altrove non convivrebbero nemmeno un minuto. Eppure quel groviglio è la sua forza. Non è armonia: è frizione produttiva.

Chi guarda tutto questo e lo riduce a “coloni e soldati” non semplifica ma cancella. E nel farlo perde il punto essenziale, e cioè che la società israeliana non sta in una definizione corta, né nella scenografia che ogni tg ricicla. Sta nei corpi, nelle famiglie, nei mercati, nelle sinagoghe, negli autobus, nelle università, negli ospedali. Sta nei contrasti. Sta nelle provenienze.

Sta, soprattutto, nella pluralità che nessuno racconta perché ormai siamo abituati a un mondo dove le sfumature non fanno clic. Eppure sono proprio quelle a spiegare tutto il resto.


Smontaggi. Israele, anatomia di un paese ridotto in due righe
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