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Smontaggi. Isolati da chi? La cultura israeliana non chiede permesso

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 3 min
Smontaggi. Isolati da chi? La cultura israeliana non chiede permesso

C’è una buffa sicurezza, negli ultimi mesi, tra certi ambienti culturali europei: la convinzione che Israele sia ormai un corpo estraneo, facilmente espellibile dal circuito degli scambi culturali. Un Paese “isolato”, raccontano, come se bastasse non invitare uno scrittore o cancellare una proiezione per modificare la mappa del mondo. La realtà è meno comoda: la cultura israeliana non solo non arretra, ma cresce. Sono altri che arretrano, rinchiudendosi nel proprio risentimento travestito da coscienza civile.

Prendiamo l’episodio più recente: la rimozione all’ultimo minuto del film israeliano “Seven Blessings” da un festival europeo — ufficialmente per “motivi di sicurezza”, ufficiosamente per la pressione di gruppi pro-palestinesi che avevano promesso di rovinare l’evento. Il festival ha piegato la testa, convinto di lanciare un segnale politico, ma in realtà ha mandato un messaggio molto più semplice: non crede più nella cultura abbastanza da difenderla. Ed è interessante notare che, mentre l’Europa censura da sé, il film continua a girare negli Stati Uniti, in Asia, in America Latina. Isolamento, sì: ma geografato al contrario.

In letteratura accade lo stesso. Da almeno vent’anni, ogni stagione qualche circolo attivista annuncia che “questa volta boicotteremo autori israeliani”, e ogni anno i libri israeliani continuano a vincere premi, ad essere tradotti, a riempire seminari universitari. Grossman resta un punto di riferimento, certo, ma la spinta viene dalla generazione che non chiede più approvazione: Keret, con i suoi racconti che sembrano lampi di realtà compressa; le scrittrici che mettono a nudo fratture misogine e religiose; i poeti che bruciano la lingua per tirare fuori un Paese fatto di identità che si urtano; gli autori mizrahì che restituiscono dignità a memorie rese invisibili. Israele non ha mai scritto così tanto, né così bene. Se qualcuno ha spento la luce, non è a Tel Aviv.

E il cinema? Lì il fallimento dell’idea di “isolamento” è ancora più evidente. Israele produce film che diventano lingua franca per capire guerra, società, moralità. Fauda e Shtisel non sono state “accettate” dall’Occidente, lo hanno conquistato. Nadav Lapid può irritare o affascinare, ma non lascia mai indifferenti; Samuel Maoz continua a fare film che costringono lo spettatore a guardarsi allo specchio; le registe di nuova generazione portano in sala un Paese che oscilla tra fede, corpo, tradizione e ribellione. E i festival, anche quelli che fingono indignazione, se li contendono sottobanco, perché sanno che nessun altro Paese sta producendo uno sguardo così netto sulla frattura tra individuo e collettività.

La verità è che la retorica del boicottaggio rivela un disagio occidentale molto più profondo: l’incapacità di accettare una cultura che non entra a pettine nelle categorie moralistiche che la nostra epoca pretende. Israele è troppo complesso, troppo contraddittorio, troppo vivo. E allora si tenta di espellerlo. Non per punirlo — sarebbe un’ambizione ridicola — ma per non dover fare i conti con ciò che la sua vitalità letteraria e cinematografica dice di noi: che siamo diventati più pavidi, più obbedienti, più inclini a evitare il conflitto morale.

Chi pensa di isolare Israele sta isolando se stesso. E ciò che viene davvero espulso dal circuito culturale non è la cultura israeliana ma la dignità di chi rinuncia alla libertà intellettuale per accodarsi all’ultima indignazione del momento. Il mondo continuerà a leggere, tradurre, premiarne gli autori; continuerà a vedere e discutere i suoi film. Perché la cultura non chiede il permesso. E soprattutto non obbedisce ai deboli. Che gli intellò de noantri se ne facciano una ragione.


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