Nel Novecento la parola liberazione ha molte grafie: Irlanda, India, Armenia, Algeria, Grecia, Polonia. A quella tavola siede anche un movimento che per molti, ancora oggi, non viene riconosciuto come tale: il sionismo. Eppure, se guardiamo le categorie con cui giudichiamo gli altri casi – popolo, memoria storica, lingua, territorio, persecuzioni, volontà politica, istituzioni – il profilo coincide. Un popolo disperso ma non dissolto, una lingua riattivata, un territorio su cui esistono titoli storici e giuridici, un secolo di pogrom culminati nello sterminio, un’organizzazione politica che costruisce scuole, sindacati, milizie di autodifesa, un’assemblea che proclama l’indipendenza. È la grammatica della liberazione nazionale, non un capriccio coloniale.
Il confronto con gli altri movimenti chiarisce più dello slogan. Gli irlandesi lottano contro la dominazione britannica, combinando insurrezione, diplomazia e costruzione di istituzioni parallele; il loro Stato nasce tra compromessi e guerra civile. Gli indiani trasformano una subalternità imperiale in un processo di massa che produce indipendenza e, insieme, la tragedia di una partizione sanguinosa; e tuttavia nessuno usa quella violenza per negare il diritto dell’India a esistere. Gli algerini vincono contro la Francia dopo una guerra sporca, con attentati e rappresaglie; nessuno chiede per questo di cancellare l’Algeria dalla carta. Gli armeni pagano con il genocidio il prezzo dell’essere minoranza in un impero morente; chi oggi mette in discussione il loro Stato invoca fantasie geopolitiche, non principi. Per Israele si pretende l’eccezione: che una liberazione avvenga senza conflitti, senza errori, senza tragedie, e se non è possibile allora non è liberazione ma colpa originaria.
C’è poi un dato che gli schemi standard faticano a contenere: gli ebrei partecipano anche ai movimenti altrui. Nelle resistenze europee, nei fronti antifascisti, nelle lotte antirazziste, nelle indipendenze balcaniche e mediterranee compaiono nomi ebraici in proporzione spesso superiore al peso demografico. Non perché esista un “gene progressista”, ma perché chi ha fatto esperienza di vulnerabilità legge prima di altri il valore della sovranità e delle libertà. L’idea che il sionismo sia per definizione opposto a ogni altra liberazione è un’invenzione recente e comoda: separa ciò che nella storia reale è stato spesso contiguo, quando non alleato.
La differenza più radicale è la condizione di partenza. Quasi tutti i movimenti citati operano in continuità territoriale: un popolo su un suolo, con élite locali, economie, reti. Gli ebrei arrivano alla liberazione da una diaspora plurale, con minoranze spesso marginalizzate e con il trauma fresco di uno sterminio industriale. Devono ricostruire non solo istituzioni statali, ma una società da zero, mescolando lingue e abitudini, importando capitale umano da Baghdad e da Varsavia, da Casablanca e da Odessa. Nessun altro movimento del secolo scorso ha dovuto, insieme, riaccendere una lingua quasi solo liturgica, assorbire profughi da tre continenti e difendersi in guerra sin dal primo minuto di vita. Se vogliamo parlare di eccezione, è qui: nella difficoltà dell’impresa, non nella sua illegittimità.
L’obiezione standard è nota: a differenza di Irlanda o India, in Palestina c’era un’altra popolazione. Vero. Ma questo non abolisce la categoria della liberazione nazionale; la complica. Il Novecento è pieno di indipendenze negoziate male, confini tracciati con righello, migrazioni forzate, esodi incrociati. Ovunque si è imposto, tardi e male, un principio di realtà: due collettività reclamano diritti; la politica cerca un accomodamento. Solo nel caso ebraico una parte dell’opinione colta europea continua a credere che la soluzione sia retroattiva – annullare il soggetto – come se fosse possibile cancellare un secolo di storia, istituzioni, cittadini, legami. È una scorciatoia morale che non applichiamo a nessun altro.
Infine, i criteri. Quando giudichiamo i movimenti di liberazione altrui, ci chiediamo se hanno costruito istituzioni funzionanti, protetto minoranze, garantito pluralismo, retto l’urto delle guerre. Nessuno pretende impeccabilità; la domanda è se hanno trasformato una ragione storica in cittadinanza. Per Israele il metro si alza di due tacche: ogni difetto diventa prova ontologica contro l’idea stessa di una casa nazionale ebraica. È un’inversione del ragionamento. La critica è legittima e necessaria, ma si muove dentro il riconoscimento; negarla significa sottrarre agli ebrei ciò che diamo per ovvio agli altri popoli.
Il confronto, dunque, non assolve né condanna: rimette la questione nel suo posto naturale, quello della storia delle liberazioni. Lì Israele appare per ciò che è stato ed è: un movimento di autodeterminazione riuscito, nato in condizioni proibitive, reso controverso da un conflitto reale e prolungato, giudicabile con gli stessi parametri con cui giudichiamo gli altri. Se non accettiamo questa simmetria minima, non stiamo difendendo un principio; stiamo solo scegliendo, ancora una volta, l’eccezione e l’alibi.
Smontaggi. Gli ebrei nei movimenti di liberazione nazionale del XX secolo
Smontaggi. Gli ebrei nei movimenti di liberazione nazionale del XX secolo