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Smontaggi. Antisemitismo e anti-sionismo tra continuità e travestimenti

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
Smontaggi. Antisemitismo e anti-sionismo tra continuità e travestimenti

In Europa l’antisemitismo non è mai uscito di scena, ma semmai ha cambiato costume e lessico. Dal disprezzo teologico al razzismo ottocentesco, dalla cospirazione ai totalitarismi, il filo resta teso; dopo il 1945 arriva una pausa di vergogna, non una catarsi. Nella seconda metà del secolo l’odio sposta il tiro: non più l’ebreo in quanto tale ma lo Stato in cui quel popolo torna soggetto politico. Passaggio comodo: si ripetono vecchi stereotipi sostituendo “ebreo” con “Israele” o “sionismo”, presentandoli come critica politica. Funziona perché la storia recente offre una scena reale, piena di conflitti; basta piegarla a cornice morale e il pregiudizio respira aria nuova.

Le continuità saltano all’occhio. L’ebreo accusato di avvelenare i pozzi riappare nella retorica che attribuisce a Israele un’essenza omicida a prescindere dai fatti. Il mito del complotto finanziario e mediatico ritorna come lobby onnipotente che compra Parlamenti e zittisce giornali. La demonizzazione teologica si fa politica: Israele come radice del male globale, laboratorio dell’oppressione. Rimangono tre pilastri: demonizzare, applicare due pesi e due misure, negare la legittimità del soggetto. La critica a governi e politiche è doverosa; trasformare ogni gesto in prova a carico dell’esistenza stessa di uno Stato è un’altra cosa.

Il discorso europeo intanto ripulisce il linguaggio. Si dice anticoloniale, ma appiattisce il Medio Oriente sul vocabolario delle Indie, cancellando cronologie, attori, scelte. Si dice di diritti umani, ma pratica eccezioni: solo a Israele si chiede ciò che non si pretende da altri; solo la sua autodifesa diventa prova del delitto. Si invoca libertà accademica, ma si coltiva il boicottaggio selettivo di professori, studenti, orchestre: le altre guerre non hanno playlist. E quando la maschera scivola, tornano i vecchi tratti: stelle di David sulle vetrine, sinagoghe sotto scorta, ebrei col kippà invitati a “non provocare”. La cronaca è ostinata: i colpi arrivano agli ebrei in carne e ossa, non solo a Israele in abstracto.

C’è poi il travestimento che accarezza la sensibilità progressista. L’antisemitismo si presenta come difesa dei diritti dei palestinesi, come antirazzismo di nuovo conio o anticapitalismo intersezionale, e usa parole nobili per un obiettivo antico: non migliorare la vita di un popolo, ma negare quella dell’altro come collettività politica legittima. Lessico ad alto voltaggio morale — apartheid, genocidio, nazismo — che non spiega: squalifica, chiude il discorso, interdice persino l’idea di un conflitto tragico tra diritti concorrenti. Se è “nazismo”, non si discute: si elimina. È qui che la continuità esplode, con l’ebreo ridotto a eccezione morale da rimuovere, oggi mediata dal rifiuto del suo Stato.

A destra il pregiudizio sopravvive in forme rozze: complottismi, negazioni mascherate, nostalgia di ordinismi etnici. Ma il travestimento antisionista negli ambienti culturali e universitari ha un vantaggio competitivo: parla la lingua delle élite, produce carte, appelli, linee guida; sdogana il sospetto come virtù e l’ostracismo come etica. Così l’indecente di ieri diventa oggi tesi sostenibile. E torna la tecnica dell’eccezione: ebrei ammessi solo se rinunciano al proprio legame nazionale; artisti e accademici accettati a condizione di una abiura rituale. Non è dialogo ma condizionalità identitaria.

Come si distingue la critica legittima dall’odio mascherato? La critica resta sui fatti, riconosce agli ebrei l’autodeterminazione al pari degli altri popoli, usa parametri comparabili, non pretende dal conflitto mediorientale purezze che non chiede altrove. Se invece ogni politica diventa prova ontologica, la doppia misura è regola, si colpiscono ebrei in quanto ebrei e il boicottaggio mira alla cancellazione, siamo davanti alla vecchia cosa in abito nuovo.

Non basteranno codici penali e comunicati. Serve lavoro culturale: togliere glamour all’odio travestito, restituire precisione alle parole, riportare il giudizio all’altezza dei fatti. L’Europa che ha fatto i conti con se stessa troppo tardi non può cercare un nuovo alibi morale. Chiamare per nome il travestimento non è esercizio di polemica ma è difendere due verità non negoziabili. Che gli ebrei siano liberi e sicuri come individui in Europa. E che il loro diritto a una casa nazionale sia discusso come per ogni Stato normale: con critiche, sì; senza eccezioni disumane. Il resto è chiasso.


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