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⌥ Silenzio stampa

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Io che ho esercitato il mestiere di giornalista per mezzo secolo capisco i miei poveri colleghi. Dopo mesi passati a chiamarli con il loro nome – complici, corrotti, ignoranti, servi del racconto dei carnefici, stipendiati indirettamente da Doha – che pretendavate, applausi? Editoriali commossi sulla libertà e la memoria? No, il silenzio è la loro forma più sincera di coerenza.

La manifestazione del 30 ottobre, quella contro l’antisemitismo, non rientrava nel copione. Nessun raccontino da titolare: “povero popolo oppresso” o “cessate il fuoco”, nessuna lacrima d’ordinanza. Solo cittadini – molti, troppi per essere ignorati – che dicevano l’indicibile: che l’odio contro gli ebrei è tornato in scena e che stavolta ha trovato platee accademiche, parrocchiali e mediatiche pronte a ospitarlo e a nutrirlo. E poi quella parola, ebrei, è diventata per molti impronunciabile.

E allora sì, meglio tacere. Meglio voltarsi dall’altra parte, come a quelli viene facile fare. Non è censura, è pudore da vecchi malati che non vogliono guardarsi allo specchio. Hanno scelto il loro campo da tempo: quello in cui l’indignazione è selettiva e la vergogna, un lusso.

Un po’ di compassione, quindi, bisogna pur averla. Perché un giornalismo ridotto a eco delle proprie bugie non si combatte: si accompagna al cimitero con passo lento e senza rancore.


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