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Show business, ovvero quando l’ignoranza diventa posa

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
Show business, ovvero quando l’ignoranza diventa posa

Cynthia Nixon non interpreta più Miranda Hobbes, l’avvocata intelligente e disincantata di Sex and the City. Ora veste i panni, ben più pericolosi, dell’attivista inconsapevole. Su Instagram ha chiesto la liberazione di Marwan Barghouti, un terrorista condannato a cinque ergastoli per l’omicidio di israeliani. Non un prigioniero politico, non un simbolo della pace mancata: un assassino seriale. Ma Nixon, tra un set e una promozione, ha deciso che “Marwan deve essere liberato per guidare verso una pace giusta”.

Sulla foto di un uomo che in aula agita le braccia in segno di vittoria, la star di Just Like That ha scritto “Free Marwan Barghouti”, con la stessa leggerezza con cui si promuove una crema per il viso. Se il post fosse solo frutto di incoscienza, potremmo parlare di ignoranza. Ma la scelta di sostenere un terrorista, nel pieno di una guerra ancora aperta, dice qualcosa di più profondo: la vanità che si traveste da coscienza civile.
Perché certe celebrità non resistono alla tentazione di “esserci”? Di infilarsi in cause che non comprendono, brandendo parole di giustizia che finiscono per sporcare la giustizia stessa? In fondo è un copione comodo: la star progressista, la maglietta con i colori della bandiera palestinese, la dichiarazione che fa il giro dei social, l’applauso prevedibile del pubblico che scambia la confusione per coraggio. Nixon è solo l’ultima di una lunga lista.

Già in passato aveva accusato Israele di genocidio, e suo figlio – descritto come “ebreo osservante” – aveva digiunato per Gaza. Ora rilancia, chiedendo di liberare un uomo che ha ordinato e celebrato attentati contro civili. È la banalità dell’impegno automatico: se c’è un conflitto, la colpa è d’Israele; se c’è un terrorista, diventa “un leader del popolo”. Tutto ridotto a un frame emotivo, facile da postare, impossibile da sostenere se si leggono le carte processuali.

Barghouti non è un mistero. È stato leader dei Tanzim (ramo armato di Fatah creato negli anni Novanta per dare una struttura più militante e popolare alla base del partito di Yasser Arafat), responsabile diretto o indiretto di attentati sanguinosi. Cinque ergastoli e quarant’anni di carcere sono la misura, giudiziaria e morale, dei suoi atti. Ma nell’universo hollywoodiano la storia si appiattisce, la complessità si cancella, il colpevole diventa eroe purché si opponga a Israele. Il pubblico occidentale, sempre più confuso, applaude.
Eppure chiedere la liberazione di Barghouti non è una leggerezza: è prendere posizione contro la verità. Significa dire, in sostanza, che l’uccisione di innocenti è un prezzo accettabile per la “liberazione” di un popolo. Un pensiero che solo l’ignoranza, o la mascalzonaggine, può rendere digeribile.

Nixon non è sola in questo delirio di equidistanza morale. Natalie Portman, Penélope Cruz, Mark Ruffalo: tutti pronti a firmare appelli, a comparare ostaggi israeliani a prigionieri condannati per terrorismo. È l’industria della coscienza a gettone, dove ogni causa vale finché garantisce visibilità. Il giorno dopo, si torna a parlare di moda sostenibile e nuove serie TV.

Ma in certi casi il silenzio sarebbe una forma di decenza. Tacere, per chi non sa, è un atto di responsabilità. Parlare senza capire, invece, è complicità travestita da bontà. E il problema di Cynthia Nixon non è solo ciò che ha detto, ma ciò che rappresenta: la superficialità che si scambia per impegno, l’indifferenza che si maschera da pietà, l’idea che basti un post per riscrivere la storia.

Quando il desiderio di apparire supera la coscienza, la voce delle star smette di essere “impegnata” e diventa soltanto ridicola. O peggio: infame.


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