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Segnali di vittoria. Il fidanzamento degli ex ostaggi

Dalla prigionia di Hamas al fidanzamento, la storia di Matan Tsengauker e Ilana Grichevsky .

Rosa Davanzo

Tempo di Lettura: 4 min
Segnali di vittoria. Il fidanzamento degli ex ostaggi

Tre mesi dopo il ritorno dalla prigionia, Matan Tsengauker si è inginocchiato davanti a Ilana Grichevsky e le ha chiesto di sposarlo. Un gesto semplice, privato, che però in Israele ha assunto immediatamente un valore pubblico. Non per romanticismo esibito, ma per ciò che rappresenta. Due sopravvissuti a Hamas che scelgono di riprendere la propria vita esattamente dal punto in cui era stata spezzata.

La notizia è stata resa pubblica dalla madre di Matan, Einav Tsengauker, una delle figure più riconoscibili della battaglia civile per la liberazione degli ostaggi. Sul suo profilo X ha pubblicato una foto della coppia che brinda, accompagnata da poche parole. La mia foto della vittoria. Nessun tono enfatico, nessuna rivendicazione politica esplicita. Eppure il messaggio è chiaro. La vittoria, qui, non è la vendetta né l’annientamento del nemico, ma la possibilità di continuare a vivere.

Matan e Ilana si erano conosciuti al lavoro. Convivevano da circa un anno e mezzo quando, il 7 ottobre, sono stati rapiti dal kibbutz Nir Oz. Lei è stata liberata nel novembre 2023, nel primo accordo di rilascio. Lui ha dovuto attendere altri mesi, fino all’ultimo accordo, rientrando in Israele il 13 ottobre, dopo 738 giorni di prigionia. Venticinque anni, un tempo che dovrebbe servire a costruire il futuro e che invece è stato consumato nei tunnel e nelle stanze sporche di Gaza.

Durante quei due anni, Ilana non è rimasta in silenzio. Si è affiancata a Einav, trasformando l’attesa in azione, la paura in pressione pubblica. Einav, ogni sabato, guidava le manifestazioni a Begin, chiedendo un accordo per il ritorno degli ostaggi. La sua voce, ostinata e spesso scomoda, è diventata un simbolo per molti israeliani. Non una figura istituzionale, ma una madre che rifiutava l’idea che la prigionia del figlio potesse essere archiviata come un effetto collaterale della guerra.

Il giorno del rilascio di Matan, prima ancora che fosse consegnato alla Croce Rossa, un funzionario di Hamas ha permesso una videochiamata. Una scena che, a distanza di tempo, conserva qualcosa di disturbante. Einav che dice al figlio “ti aspetto, vita mia”, mentre lui è ancora formalmente nelle mani dei suoi carcerieri. Un frammento che racconta tutta l’ambiguità e la crudeltà di quel sistema, capace di concedere un gesto umano senza restituire immediatamente la libertà.

Dopo il ritorno in Israele, Matan ha avviato una raccolta fondi per la propria riabilitazione. Nel testo di presentazione non c’è traccia di eroismo. Parla di un percorso lungo e difficile, di corpi e menti da ricostruire, di un sostegno statale insufficiente rispetto alla profondità del trauma. Il sogno, scriveva, è quello di creare una casa e una famiglia. Parole ordinarie, che suonano quasi sovversive dopo ciò che hanno attraversato.
Ilana, dal canto suo, aveva già portato la propria testimonianza fuori dai confini israeliani. Alla fine di agosto, prima del rilascio di Matan, aveva parlato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Aveva raccontato il rapimento, gli abusi, i 55 giorni di prigionia, lo spostamento continuo tra case, tunnel e appartamenti sudici. Aveva parlato anche del silenzio. Quello delle organizzazioni per i diritti umani, dei doppi standard applicati alle donne ebree, della distanza tra i principi proclamati e la realtà vissuta.

Poche settimane prima di quell’intervento, Ilana ed Einav avevano inscenato una cerimonia nuziale simbolica nella Piazza dei Rapiti a Tel Aviv. Un atto carico di dolore, più che di speranza. Un abito da sposa, un baldacchino sorretto da altri genitori di ostaggi, vivi o uccisi. Un modo per dire che l’attesa non avrebbe cancellato il legame, ma anche per ricordare pubblicamente ciò che era stato sottratto.

Oggi quella cerimonia simbolica è diventata un progetto reale. Senza clamore, senza retorica. Il fidanzamento di Matan e Ilana non cancella il trauma, non risarcisce i giorni perduti, non restituisce ciò che è stato tolto. Ma afferma qualcosa che Hamas, e chi ne giustifica la violenza, non aveva previsto. Che la distruzione non è mai totale. Che anche dopo la prigionia, la tortura, l’umiliazione, esiste uno spazio per scegliere la vita.
È forse per questo che Einav ha parlato di vittoria. Non perché tutto sia finito, ma perché qualcosa, contro ogni calcolo, è ricominciato.


Segnali di vittoria. Il fidanzamento degli ex ostaggi
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