Nei campus americani l’indignazione è diventata un mestiere. E come ogni mestiere, segue il denaro. Gli ultimi report lo dicono senza giri di parole: molti “leader” delle proteste anti-israeliane erano alimentati da fondi e gruppi che hanno con la libertà accademica lo stesso rapporto che un pitbull ha con un piccione.
Risultato: studenti ebrei aggrediti, rettori paralizzati, professori che filosofeggiano sulle “dinamiche del conflitto” mentre fuori dalle aule si fa il conto dei contusi. Tutti pronti a difendere la libertà di espressione, purché l’espressione non sia quella di chi si sente minacciato.
La scena è sempre quella: tende, slogan, TikTok, e amministrazioni che per ogni ceffone aprono un “tavolo di dialogo”. Il vero dialogo però è semplice: chi urla comanda, chi pensa si ritira.
Il paradosso è completo: i templi del pensiero critico diventano parchi giochi per estremisti in felpa. E la parola “antisemitismo”, quella vera, viene triturata dalla semantica di chi la rifiuta per principio. Tanto, l’esame lo passa sempre chi indigna di più.
Il resto è silenzio, e non per meditazione: è paura di finire nel mirino della rivoluzione da dormitorio. Una rivoluzione finanziata, comoda, intercambiabile. Come un abbonamento mensile.
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