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Regno Unito, quando le parole smettono di essere slogan

Rosa Davanzo

Tempo di Lettura: 3 min
Regno Unito, quando le parole smettono di essere slogan

Per anni abbiamo sentito ripetere come un mantra che erano solo parole, solo slogan, solo rabbia urlata nelle piazze. Ora, finalmente, in Gran Bretagna qualcosa si è rotto. E questa volta non per una svolta ideologica, ma per il sangue. Gli arresti effettuati a Londra durante una manifestazione pro-palestinese segnano un cambio di passo netto: per la prima volta la polizia britannica ha fermato persone che gridavano «globalize the intifada», trattando quei cori come reati di ordine pubblico aggravati dall’odio razziale.

Quattro arresti per slogan che invocano l’intifada, un quinto per aver ostacolato l’intervento degli agenti. Un dettaglio non da poco. Le forze dell’ordine hanno detto apertamente che il contesto è cambiato. Dopo la strage antisemita a Bondi Beach, in Australia, e dopo l’attacco terroristico alla sinagoga di Manchester durante Yom Kippur, le parole non possono più essere isolate dai fatti che ispirano.

La decisione è stata annunciata congiuntamente dalla Metropolitan Police e dalla Greater Manchester Police, che hanno promesso un approccio «più assertivo» verso slogan e cartelli che incitano alla violenza contro gli ebrei. Una formula che rompe anni di ambiguità. «Le parole hanno un significato e conseguenze». Una frase banale solo in apparenza, perché è proprio su questo equivoco che si è costruita la normalizzazione dell’odio.

Come prevedibile, le reazioni non si sono fatte attendere. Le organizzazioni ebraiche hanno accolto la svolta come un passo necessario. Il rabbino capo Ephraim Mirvis ha parlato di un’azione fondamentale per contrastare una retorica che non solo offende, ma ispira terrorismo. Dall’altra parte, la Palestine Solidarity Campaign ha denunciato una repressione del diritto di protesta, insistendo sul significato etimologico di intifada come «scuotersi di dosso l’ingiustizia».

È una difesa che ignora deliberatamente la storia recente. Perché se la prima intifada è stata considerata anche una forma di protesta civile, la seconda, quella che ha fissato il termine nell’immaginario collettivo globale, è stata una stagione di attentati suicidi, autobus sventrati, ristoranti pieni di civili trasformati in obiettivi. È quella memoria che rende lo slogan tutt’altro che neutro. Gridare «globalizzare l’intifada» nel 2025 significa invocare una violenza esportabile, replicabile, legittimata.

Il Regno Unito sembra averlo finalmente compreso. Non a caso, parallelamente agli arresti, è stata rafforzata la sicurezza attorno a sinagoghe, scuole e centri comunitari ebraici. Il primo ministro Keir Starmer ha definito senza esitazioni la strage australiana per quello che è stata: terrorismo antisemita contro famiglie ebree. Anche la Crown Prosecution Service ha annunciato un impegno più incisivo contro i crimini d’odio, in un Paese dove segnalazioni e condanne per hate crimes sono aumentate del 17 per cento in un solo anno.

Non si è risolto un problema. Ma almeno è finita una finzione: quella per cui l’odio, se mascherato da linguaggio politico, diventa accettabile. La Gran Bretagna arriva tardi, come molti altri Paesi occidentali. Ma arriva con una consapevolezza nuova: non esiste una linea netta tra slogan e violenza quando le vittime sono sempre le stesse. Fingere di non vederlo, ormai, non è più un’opzione.


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