Gli atenei italiani si sono mobilitati sulla questione palestinese, dentro un’onda internazionale che coinvolge associazioni, istituzioni locali e cittadini. Nelle ultime settimane appelli e raccolte firme hanno chiesto di schierarsi «contro il genocidio dei palestinesi» e di interrompere relazioni accademiche con le università israeliane per il rischio di “dual use” e la presunta «connivenza con politiche genocidarie». In molte sedi il dibattito è stato serrato, talvolta accompagnato da mozioni dettagliate.
Alla Sapienza di Roma, nella Facoltà di Lettere e Filosofia, un’assemblea composta da docenti, studenti e personale ha discusso e approvato tre mozioni: la prima contro l’operato di Israele nei territori occupati e per il ripristino degli aiuti umanitari; la seconda per l’interruzione delle cooperazioni accademiche con Israele e l’avvio di collaborazioni con istituzioni palestinesi; la terza per la pubblicazione degli accordi in essere e la richiesta di cessarli. Colpisce però un’assenza sostanziale: nelle mozioni non compare alcun riferimento al 7 ottobre 2023, alle vittime del pogrom compiuto da Hamas, agli ostaggi rapiti, né alla loro parziale liberazione.
Eppure, all’indomani del 7 ottobre, la reazione fu quasi unanime: sdegno per l’ennesima strage antiebraica e solidarietà alle vittime — ebrei, musulmani, cristiani, arabi, israeliani e stranieri, donne e uomini, anziani e bambini. Circa 1.400 persone massacrate, centinaia rapite, violenze indicibili: fatti documentati, non opinioni. Oggi, nel pieno di un conflitto che ha generato una catastrofe umanitaria a Gaza, il dibattito universitario sembra talvolta espungere la causa scatenante, diluendo la sequenza degli eventi in formule generiche: «genocidio», «liberazione dall’occupazione», «decolonizzazione». Nelle mozioni di Lettere alla Sapienza, come in altri testi circolati altrove, quella data non c’è.
Non si tratta di una semplice svista redazionale. In un luogo che rivendica metodo, fonti e responsabilità della parola pubblica, omettere il 7 ottobre significa indebolire la verità dei fatti e, di conseguenza, il principio stesso di responsabilità. La memoria non è un optional ideologico: è la condizione perché ogni giudizio — anche il più severo — sia fondato.
C’è di più. Silenziando il 7 ottobre, si rischia di sdoganare nel discorso pubblico definizioni ambigue di Hamas come «movimento di resistenza», già affacciate in dichiarazioni di esponenti politici e, talvolta, di funzionari internazionali. Ma Hamas è riconosciuta come organizzazione terroristica da UE e USA: ha compiuto un pogrom deliberato contro civili, praticando stupri, torture, sequestri e l’uso di scudi umani. Questo non elide la sofferenza dei palestinesi né la responsabilità di Israele per le proprie azioni; impedisce però l’equivalenza morale e la confusione terminologica che trasformano la storia in propaganda.
Le università hanno il compito di tenere insieme memoria e metodo: nominare le fonti della violenza, ricostruire la cronologia, distinguere tra dissenso legittimo e apologia dell’odio, tra protesta e intimidazione. Per questo la Facoltà di Lettere della Sapienza — come ogni comunità accademica — dovrebbe riconoscere apertamente l’incoerenza di mozioni che tacciono l’innesco del conflitto attuale e riaffermare la memoria delle vittime del 7 ottobre 2023. Non per chiudere il dibattito, ma per fondarlo su fatti interi e su parole responsabili. Solo così la critica — anche aspra — può restare etica e intellettualmente onesta, e l’accademia può continuare a essere ciò che proclama: un luogo dove la ricerca della verità viene prima di ogni schieramento.
Quale verità per il 7 ottobre? La memoria silenziata e lo sdoganamento del terrorismo
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