Per anni il Qatar è stato presentato, e accreditato, come un mediatore indispensabile nei dossier mediorientali più delicati. Un attore “utile”, capace di parlare con tutti. Una nuova ricerca di Jonathan D. Halevi smonta questa rappresentazione pezzo per pezzo e restituisce un quadro molto più netto: Doha non è un arbitro, ma semmai una parte in causa decisamente ostile a Israele.
Per chi non lo sappia, Jonathan D. Halevi è un analista accreditato internazionalmente sui temi della sicurezza e del terrorismo, specializzato in jihadismo, Fratelli Musulmani e dinamiche ideologiche dell’islam politico.
Lo studio, pubblicato dal Jerusalem Center for Security and Foreign Affairs, ricostruisce in modo sistematico il rapporto strutturale tra il Qatar e Hamas, mostrando come il sostegno di Doha non si sia limitato a canali umanitari o a un generico ruolo di facilitazione diplomatica. Al contrario, il Qatar avrebbe garantito all’organizzazione jihadista rifugio politico, flussi finanziari continui, copertura ideologica e una piattaforma internazionale senza la quale Hamas non avrebbe potuto trasformarsi nella macchina militare che ha colpito Israele il 7 ottobre 2023.
Secondo la documentazione analizzata, il denaro qatarino ha avuto un impatto diretto sulla capacità operativa di Hamas. Non solo stipendi e welfare per la popolazione di Gaza, ma la costruzione di una vera infrastruttura militare: una rete di tunnel senza precedenti, un’industria locale delle armi, l’addestramento di migliaia di combattenti. Tutto questo mentre Doha continuava a presentarsi come partner responsabile dell’Occidente e interlocutore affidabile nei negoziati.
Il cuore della ricerca riguarda un piano denominato “The End of Days Assurance System”, elaborato anni prima del massacro del 7 ottobre. Un progetto che metteva insieme terrorismo militare, guerra psicologica e una componente ideologica apertamente genocidaria. Non un’esplosione di violenza improvvisa, dunque, ma una strategia di lungo periodo, discussa, affinata e resa possibile da un contesto politico e finanziario favorevole.
In questo contesto, il ruolo del Qatar si qualifica come centrale tanto che i vertici di Hamas hanno sempre considerato Doha un partner privilegiato. Già oltre un decennio fa, leader dell’organizzazione partecipavano nella capitale qatarina a incontri dedicati a quella che veniva definita “strategia di liberazione”: un piano complessivo per la distruzione dello Stato di Israele e la sua sostituzione con un’entità islamica alternativa. Siamo qui fuori dalla tipica retorica comiziale e invece all’interno del perimetro di linee guida operative.
Halevi dice e ripete come il doppio volto del Qatar sia stato a lungo sottovalutato. Da un lato l’immagine di mediatore, dall’altro un sistema di sostegno che ha permesso ad Hamas di rafforzarsi, pianificare e colpire. La legittimazione ideologica, veicolata anche attraverso reti clericali legate ai Fratelli Musulmani, ha contribuito a sacralizzare la violenza, normalizzando l’idea dello sterminio come obiettivo politico.
Il punto più politico della ricerca riguarda un appello alla comunità internazionale. Continuare a trattare il Qatar come un attore neutrale, avverte Halevi, significa ignorare l’infrastruttura statale e ideologica che ha reso possibile il 7 ottobre. Un’illusione comoda, ma pericolosa non solo per Israele ma anche per la stabilità regionale e per un sistema internazionale che dice di voler combattere il terrorismo senza riconoscere chi sono i veri padrini.
La conclusione è secca e difficilmente eludibile: la lotta al jihadismo non può si può accontentare di condanne di rito. Richiede esposizione dei fatti, assunzione di responsabilità e decisioni politiche coerenti. Anche quando mettono in discussione partner considerati intoccabili. Doha compresa.
Qatar, il falso mediatore
Qatar, il falso mediatore

