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⌥ Pesto e pace

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Greta torna in Italia. Non per scusarsi, figurarsi, ma per un nuovo “sciopero generale” contro la “finanziaria di guerra”. La guerra, si capisce, è quella al buon senso. Da quando la sua Flottilla è affondata nel mare dell’insignificanza, la Thunberg detta Greta vaga come una santa laica in cerca di telecamere da benedire, con lo sguardo assorto e la cartella dei comunicati sempre pronta.

A fine mese, a Genova promette di concionare su clima, capitalismo e Palestina: il suo trittico mistico. Un sindacato alternativo ha già mandato in tintoria le bandiere rosse impolverate e gli slogan un po’ sbiaditi, tipo “no alle spese militari” – peccato che il mondo vero, quello in cui gli eserciti difendono le persone reali, non stia ad aspettare il loro corteo.

La scena è sempre la stessa: Greta pronuncia frasi che suonano bene e non significano niente, i militanti applaudono come a un concerto unplugged del Bene, e tutti si sentono più puri per cinque minuti, finché non arriva l’ora dell’aperitivo.

Resta un dettaglio: il pesto. Lei forse crederà che sia un verbo da coniugare (“io pesto, tu pesti, l’IDF pesta”), ma qualcuno, per pietà, le spiegherà che a Genova il pesto si mangia. E che non c’è niente di più pacifico di un piatto di trofie ben condite: nessuna ideologia, nessuna guerra, solo basilico, olio e un po’ di misura. Quella che a Greta, povera anima errante del millennio, continua a mancare.


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