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Perché l’Italia fa bene a non riconoscere lo Stato di Palestina

Fabrizio Macrì

Tempo di Lettura: 3 min
Perché ’Italia fa bene a non riconoscere lo Stato di Palestina

I recenti riconoscimenti a raffica dello Stato di Palestina da parte di Regno Unito, Canada, Australia e Francia hanno spinto il Vice-Ministro degli Esteri dell’Autorità Nazionale Palestinese a dichiarare: «È un peccato che i nostri amici in Italia non partecipino a questo momento storico, li invitiamo a farlo».

La risposta della Presidente del Consiglio italiana è stata netta: l’Italia riconoscerà la Palestina soltanto a condizione che vengano restituiti gli ostaggi e che Hamas venga destituito e non abbia alcun ruolo di governo. La posizione italiana si dimostra quindi orientata a una soluzione realistica del conflitto, puntando a fare pressione su chi lo ha scatenato, cioè Hamas, e sulle cause che impediscono a Israele di interrompere le operazioni militari, come la minaccia costante proveniente dai confini e la mancata restituzione degli ultimi cinquanta ostaggi. A queste condizioni se ne aggiunge una terza, che appare irrinunciabile: l’accettazione di negoziare i confini del nascente Stato palestinese con Israele.

Un’analisi dei fatti che hanno preceduto il massacro del 7 ottobre conferma la prudenza italiana e si fonda su evidenze storiche precise. L’odio arabo verso gli israeliani ha origini profonde e non dipende da dispute territoriali. Già sotto l’Impero Ottomano e poi durante il mandato britannico, l’arrivo legale degli ebrei della diaspora fu accolto con ostilità, fino a stringere negli anni Trenta e Quaranta rapporti di intesa con il regime nazista. Quando nacque lo Stato di Israele nel 1948 non c’era Benjamin Netanyahu, non esistevano insediamenti in Giudea e Samaria e Gaza apparteneva all’Egitto: nonostante l’assenza di tutte le cause che oggi vengono indicate come motivo del conflitto, gli arabi dichiararono lo stesso una guerra di annientamento.

La differenza tra le due società resta significativa: in Israele vivono circa due milioni di arabi che godono di pieni diritti e svolgono i loro doveri di cittadinanza, mentre nei territori controllati dall’Autorità Nazionale Palestinese e a Gaza non esiste presenza ebraica. La società palestinese si fonda infatti su un assolutismo religioso e su una logica di pulizia etnica che non ammette la presenza ebraica su un territorio considerato come proprio di diritto. Non va dimenticato inoltre che i palestinesi hanno rifiutato sistematicamente ogni offerta di pace territoriale, anche le più generose, alzando di volta in volta la posta in gioco e facendo seguire a ogni fallimento negoziale nuove ondate di terrorismo contro civili israeliani.

Se la storia insegna che l’obiettivo non è la convivenza tra due popoli ma l’annientamento dello Stato di Israele, la posizione italiana appare non solo legittima ma necessaria. La pressione deve essere rivolta sui palestinesi, non su Israele, affinché vengano create le condizioni minime per una trattativa credibile. Prima di sedersi a un tavolo negoziale occorre sgombrare il campo dal pregiudizio antisemita radicato nella cultura araba, che ha sempre respinto l’idea di due popoli e due Stati se uno di essi fosse stato ebraico. È un’intera ideologia che va smantellata: quella che insegna il Mein Kampf nelle scuole di Gaza finanziate da UNRWA e che ha allevato generazioni di arabi all’odio verso gli ebrei.

La partecipazione attiva di ampie fasce della popolazione civile di Gaza al massacro del 7 ottobre lo conferma. Non solo Hamas, ma parti consistenti della società palestinese hanno condiviso e sostenuto quell’atto terroristico, dimostrando la profondità del comune sentire antisemita. Ignorare queste verità scomode significa alimentare il radicalismo islamico, aprendo le porte non soltanto di Israele ma dell’intero Occidente al suo odio distruttivo.


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