Pier Paolo Pasolini è stato forse l’intellettuale più scomodo e al tempo stesso più lucido della sinistra italiana. Poeta e regista, corsaro e scandaloso, la sua voce non ha mai accettato i conformismi ideologici. Proprio per questo, ancora oggi, a distanza di decenni, i suoi scritti risuonano come lampi di verità in un panorama culturale dove il coraggio dell’analisi critica sembra sempre più raro.
Nel 1967, in piena stagione di conflitti e passioni politiche, Pasolini pubblicava su Nuovi Argomenti un testo destinato a lasciare il segno: “Israele”. Erano i giorni in cui la sinistra italiana, e in particolare il Partito comunista, si schierava senza esitazioni dalla parte del mondo arabo contro Israele. Leggendo l’Unità, organo ufficiale del PCI, Pasolini confessava di provare «lo stesso dolore che si prova leggendo il più bugiardo giornale borghese». Una frattura netta, bruciante, che denunciava la superficialità con cui anche il giornale dei comunisti conduceva una vera e propria “campagna per creare un’opinione” anti-israeliana.
Pasolini rovesciava la domanda: davvero Israele era nato “male”? Non era piuttosto un esperimento unico al mondo, lo Stato degli ebrei sopravvissuti alla Shoah, liberi e sovrani per la prima volta dopo secoli di persecuzioni? Con lucidità spietata, ricordava che nessuno poteva garantire che non sarebbe emerso un nuovo Hitler, o che in Occidente non sarebbero potuti sorgere altri campi di concentramento per ebrei, drogati, omosessuali. Israele, per lui, non era una distorsione della storia, ma la risposta necessaria a un’urgenza storica: dare al popolo ebraico una casa, una difesa, una dignità.
Pasolini smontava così l’alibi di chi, già allora, diceva «non ce l’ho con gli ebrei, ma con Israele». Era un argomento che gli appariva pericoloso, perché separava artificiosamente il destino degli ebrei dalla loro possibilità concreta di esistere come comunità politica e nazionale. E chiedeva ai suoi compagni comunisti se fossero davvero disposti a garantire la sicurezza degli ebrei, o se non fosse più onesto riconoscere almeno “in cuor proprio” l’esperimento dello Stato di Israele.
Il passo forse più profetico riguarda la critica alla sinistra che fingeva di ignorare la volontà del mondo arabo di distruggere Israele. Pasolini non si lasciava sedurre da letture ideologiche: riconosceva il diritto dei palestinesi, ma denunciava l’ipocrisia di chi, in nome dell’anticolonialismo, non vedeva o non voleva vedere l’antisemitismo profondo che animava gran parte della retorica araba contro Israele. «Che aiuto si dà al mondo arabo fingendo di ignorare la sua volontà di distruggere Israele?», chiedeva con una lucidità che oggi colpisce come allora.
Questo testo, scritto quasi sessant’anni fa, ha la forza di un’istantanea che resiste al tempo. Pasolini, uomo di sinistra, seppe vedere ciò che i suoi compagni non volevano vedere: la fragilità e insieme la necessità di Israele. Non un’entità astratta, ma lo Stato che garantiva la sopravvivenza di un popolo minacciato da secoli.
Rileggere queste righe significa misurarsi con un intellettuale che non accettava la logica del tifo, che non piegava la sua coscienza a nessuna linea di partito. E significa, soprattutto, riscoprire che la solidarietà verso Israele, lontano dall’essere un “tradimento” della causa dei popoli, era per Pasolini l’unica forma di autentica umanità. La sua domanda resta ancora oggi senza risposta: quanti, nel cuore della sinistra, sono disposti ad accettare Israele come esperimento di libertà e sovranità, e quanti continuano a fingere di ignorarne la realtà?
Pasolini e Israele, la lezione che la sinistra ha dimenticato
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