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SIONISMO

Roberto Della Rocca

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Oggi lo Stato di Israele rappresenta, più di ogni altra realtà, il punto su cui si concentrano le frustrazioni e le insofferenze di chi continua a nutrire sentimenti antisemiti. In questo atteggiamento pesa anche il cortocircuito psicologico di un’Europa che non ha ancora fatto davvero i conti con il proprio passato. La stessa Europa che si proclama culla di libertà, uguaglianza e fraternità sembra faticare, ormai, a confrontarsi con un Paese piccolo per dimensioni ma capace di trasformare dolore, precarietà e minacce in un laboratorio politico, sociale e culturale unico nel suo genere. È forse proprio questo successo – la capacità di rinascita e costruzione – a suscitare nuove ostilità: Israele incarna ciò che l’Europa non riesce più a diventare.
La nascita di Israele non è il frutto di un artificio diplomatico né di un progetto astratto tracciato su una carta geografica. È piuttosto la manifestazione della tenacia di un popolo che, attraverso persecuzioni, diaspora e rinascite, ha saputo ridefinirsi senza mai smarrire il proprio nucleo identitario. L’esistenza stessa dello Stato d’Israele ricorda al mondo occidentale che il popolo ebraico non è scomparso, non ha accettato di dissolversi nella comoda illusione dell’assimilazione, che in più di un’occasione si è rivelata una trappola mortale. Perdere la propria identità significa scivolare in una falsa uguaglianza che annulla le differenze invece di valorizzarle. Il sionismo, in questo senso, non nasce come gesto nazionalista cieco, ma come risposta a secoli di marginalizzazione e come rifiuto dell’assimilazionismo, spesso solo l’altra faccia dell’antisemitismo.
C’è ancora chi afferma che senza la Shoah Israele non sarebbe mai nato. Ma forse è giunto il momento di ribaltare questa visione: Israele nasce non a causa della Shoah, ma nonostante la Shoah, perché nessuna tragedia di tale portata può diventare un risarcimento. Al contrario, la fondazione dello Stato è il risultato della volontà di vita e di autodeterminazione di un popolo che ha rifiutato l’annientamento.
Nel corso dei decenni, in Israele si sono raccolte storie, culture, lingue e sensibilità differenti: un mosaico umano complesso, unito da un ebraismo plurale ma estremamente variegato nelle origini e nelle traiettorie personali. Ciò che tiene insieme questa pluralità non è l’uniformità, ma una forza centripeta fatta di memoria condivisa, aspirazioni comuni e consapevolezza del proprio destino collettivo. Chi attacca Israele spesso non lo fa per i suoi limiti – che pure esistono come in ogni democrazia – ma per ciò che in quel Paese funziona: la sua vitalità, la sua capacità di integrare differenze, la sua democrazia giovane ma solida, che ogni giorno si confronta con le tensioni e i dilemmi tipici di una società pluralista. Israele non è un mito ideale né un simbolo astratto: è un Paese reale, con contraddizioni e potenzialità, che continua a lottare per la propria legittimazione internazionale.
Anche noi ebrei della Diaspora, spesso, viviamo Israele in modo riduttivo, emotivo o superficiale. Ma Israele non è un parco giochi identitario, né un rifugio temporaneo, né solo una fonte di ansia legata al conflitto. Occorre ampliare lo sguardo, nutrire la nostra relazione con questo luogo cogliendone la fertilità culturale, scientifica, spirituale, letteraria e sociale. Rivalutare l’ebraico, che resta un ponte vivo tra sacro e quotidiano, passato e presente, spiritualità e vita civile. Accogliere ciò che Israele stimola e offre significa riscoprire un legame maturo, consapevole, capace di generare nuovi pensieri e nuovi orizzonti.