Secondo l’apparato di sicurezza israeliano, Hamas ha trovato un modo semplice e spietatamente efficace per restare al potere: trattenere l’ultimo ostaggio e bloccare così il passaggio alla fase successiva dell’accordo di cessate il fuoco. Finché la Fase A rimane in vigore, il movimento islamista guadagna tempo, merci e soprattutto controllo.
Le fonti della difesa parlano chiaro: Hamas sta ritardando di proposito la consegna dell’ultimo ostaggio perché sa che quel gesto farebbe scattare l’ingresso nella Fase B, la stessa che – almeno sulla carta – dovrebbe portare al disarmo dell’organizzazione e alla creazione di una forza multinazionale nella Striscia di Gaza. Un passaggio che Hamas considera letale per i propri interessi e che, a oggi, nessuno sul terreno sembra davvero disposto o pronto ad attuare.
Nel frattempo, la Fase A è diventata una miniera d’oro. Ogni giorno entrano a Gaza circa 600 camion di aiuti e merci. Solo una parte è gestita dalle Nazioni Unite; il resto passa attraverso il settore privato palestinese. Secondo i servizi israeliani, la quantità supera di gran lunga il fabbisogno di base della popolazione. Il surplus viene intercettato da Hamas, riconvertito in denaro e utilizzato per finanziare apparati interni, comprare fedeltà, ricostruire reti di potere.
Qui pesa un altro fattore decisivo: l’assenza fisica dell’esercito israeliano in molte aree della Striscia. Dove le IDF non sono presenti, spiegano le fonti, Hamas torna a regnare sovrano. Riorganizza le sue strutture, riafferma il controllo sulle strade, reprime ogni dissenso. Alcune milizie beduine o gruppi anti-Hamas operano nelle zone periferiche o vicino al confine, ma solo dove l’ombrello militare israeliano crea una fragile zona grigia.
La ricostruzione del potere non passa soltanto dalle armi. Il sistema sanitario palestinese sta rimettendo in funzione ospedali chiave, come lo Shifa. Intanto riaprono il tribunale militare e la Corte della Sharia. Giustizia, sanità, ordine pubblico: i pilastri del governo. Hamas li riprende uno a uno, ridisegnando la normalità a propria immagine. Il messaggio ai civili è inequivocabile: siamo ancora noi a decidere.
Sul tavolo resta la grande promessa incompiuta: la forza multinazionale della Fase B. Nei documenti e nelle conferenze stampa riempie pagine e dichiarazioni; nella realtà non esiste. Nessun Paese si è impegnato concretamente a inviare truppe a Gaza. Alcuni governi hanno ventilato la disponibilità a schierare piccole unità, ma solo in aree già sotto controllo israeliano, dove di fatto non vivono palestinesi. Una “multinazionale” che non vuole sporcarsi le mani.
Per Israele il bivio è brutale. Da una parte c’è la pressione americana a procedere comunque verso la Fase B, anche prima della restituzione dell’ultimo ostaggio. Dall’altra, i vertici della sicurezza invocano leve più dure: ridurre il flusso di merci che alimenta l’economia sommersa di Hamas o avviare una nuova manovra di terra, nonostante i rischi diplomatici e militari.
In mezzo restano i civili di Gaza, che hanno bisogno di aiuti reali. Una verità scomoda è ormai chiara: la Fase A, nata per stabilizzare la Striscia e creare le condizioni per il disarmo, si sta trasformando nel laboratorio in cui Hamas riorganizza il proprio regime.
Finché l’ultimo ostaggio resterà nelle sue mani, la Fase B rimarrà un titolo su un documento, poco più di un auspicio. E la “nuova Gaza” immaginata dalle capitali occidentali sarà, per ora, un’altra illusione diplomatica schiacciata dalla logica spietata del potere sul campo.
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Ostaggi e camion: così Hamas congela la Fase 2 a Gaza
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