La notizia è scomoda, per questo è passata quasi inosservata nei circuiti mediatici occidentali più rumorosi. Eppure è nero su bianco: un reportage di Michelle Nichols per Reuters certifica che nessuna area della Striscia di Gaza è oggi classificata come in stato di carestia secondo i parametri tecnici internazionali. Un dato che impone una rilettura critica di mesi di titoli, appelli e accuse che hanno descritto Gaza come vittima di una fame deliberatamente provocata da Israele.
Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), citato da Reuters, la carestia non sussiste più grazie al miglioramento dell’accesso agli aiuti umanitari e alle forniture commerciali dopo il cessate il fuoco di ottobre. La situazione resta difficile, fragile, tutt’altro che risolta. Ma i criteri che definiscono una carestia – mortalità, malnutrizione estrema, collasso totale dell’accesso al cibo – non sono più soddisfatti. È un fatto, non un’opinione.
Questo dato entra però in collisione con la narrazione dominante costruita negli ultimi mesi. Gran parte dei media occidentali ha infatti rilanciato cifre drammatiche prendendo per buone le stime diffuse da Hamas, senza le cautele che normalmente si riservano a una parte in guerra. Quelle cifre hanno alimentato una campagna emotiva potente, ma scarsamente verificata, trasformando ipotesi e proiezioni in verità acquisite.
Il reportage di Nichols mette invece in evidenza un elemento sistematicamente rimosso dal racconto pubblico: il funzionamento del piano di accesso umanitario garantito da Israele. Da settimane entrano a Gaza centinaia di tir di aiuti alimentari al giorno, coordinati e monitorati da COGAT, l’unità del ministero della Difesa israeliano responsabile degli affari civili. Non si tratta di un meccanismo opaco: sul profilo X di Cogat i dati sono pubblicati quotidianamente e in tempo reale, con numeri, tipologie di carichi e punti di ingresso. Trasparenza difficilmente compatibile con l’accusa di una strategia di “fame come arma”.
Anche le dichiarazioni delle agenzie dell’United Nations vanno lette con maggiore prudenza. In troppe occasioni, negli ultimi mesi, parole e report ONU sono stati strumentalizzati politicamente, estrapolati dal loro contesto tecnico per sostenere una tesi precostituita. Lo stesso rapporto IPC citato da Reuters parla di rischio futuro, non di carestia in atto.
Riconoscere che oggi a Gaza non c’è una carestia non significa negare la sofferenza della popolazione civile né assolvere ogni scelta politica o militare israeliana. Significa però ristabilire un principio elementare: le politiche si giudicano sui fatti, non sulle narrazioni. E i fatti, questa volta, dicono qualcosa che molti preferirebbero non sentire.
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Ops, il reportage Reuters dice che a Gaza non c’è alcuna carestia
Ops, il reportage Reuters dice che a Gaza non c’è alcuna carestia

