All’inizio degli anni Cinquanta, la millenaria comunità ebraica dell’Iraq – quella di Babilonia, dei profeti, del Talmud – capisce che la storia è finita.
Dopo la nascita di Israele e la guerra del 1948, gli ebrei di Baghdad vengono presi in ostaggio dal nazionalismo arabo: licenziamenti, arresti, impiccagioni esemplari con l’accusa di essere nemici sionisti, paura nelle strade. Il messaggio è semplice: potete restare senza diritti o potete andarvene, ma a condizioni poste dallo Stato.
Nel 1950 il governo iracheno approva una legge che consente agli ebrei di rinunciare alla cittadinanza in cambio del permesso di emigrare. È una finta concessione: chi si registra viene marchiato, perde beni, lavoro, protezione legale. Israele però coglie l’unica finestra possibile e mette in piedi un’operazione gigantesca, chiamata Ezra e Nehemia, come i leader biblici del ritorno da Babilonia. Tra il 1950 e il 1951, con voli continui e una logistica al limite, circa 120.000 ebrei iracheni vengono trasferiti nel neonato Stato ebraico.
Non è un’epopea patinata: molte famiglie arrivano solo con i vestiti addosso, lasciandosi alle spalle case, negozi, aziende, sinagoghe, cimiteri. Israele, povero e sotto assedio, deve assorbire in pochi mesi un’intera comunità, piantando tende e campi di transito piantati nel fango. Ma il risultato è radicale: in meno di due anni, l’ebraismo iracheno passa dall’essere una minoranza tollerata e umiliata in un Paese ostile a diventare parte viva del mosaico israeliano.
Operazione Ezra e Nehemia è esattamente questo: la chiusura brutale di un esilio di duemilacinquecento anni e il suo atterraggio, spesso doloroso ma irreversibile, nella storia dello Stato d’Israele.
Operazione Ezra e Nehemia

