Home > Approfondimenti > ONU, una vergogna che dura da mezzo secolo

ONU, una vergogna che dura da mezzo secolo

Daniele Scalise

Tempo di Lettura: 4 min
ONU, una vergogna che dura da mezzo secolo

Cinquant’anni fa, il 10 novembre 1975, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvava la Risoluzione 3379, quella che marchiava il sionismo come una forma di razzismo. Un voto infame, politicamente calcolato e moralmente ripugnante. Non si tratta di una svista della storia, ma di un atto deliberato di guerra ideologica. E come tutte le guerre ideologiche, i suoi effetti non si sono esauriti con la fine formale delle ostilità.

La data non era casuale: cadeva nel trentottesimo anniversario della Kristallnacht. Una coincidenza che oggi suona sinistra e che allora passò come un dettaglio. Quel giorno, mentre l’ambasciatore israeliano Chaim Herzog saliva sul podio dell’Onu e strappava simbolicamente il testo della risoluzione davanti all’Assemblea, si consumava uno degli atti più gravi di delegittimazione politica mai compiuti contro lo Stato ebraico.

La risoluzione nacque nel pieno della Guerra fredda. Fu l’Unione Sovietica a sponsorizzarla, con l’appoggio compatto del blocco socialista, dei Paesi arabi e di una parte consistente del cosiddetto Terzo mondo post-coloniale. L’obiettivo di Mosca era duplice: da un lato distogliere l’attenzione internazionale dal proprio antisemitismo interno e dalla repressione degli ebrei sovietici; dall’altro trascinare l’anti-sionismo dentro il linguaggio e l’immaginario della sinistra globale, presentandolo come una battaglia antirazzista e anti-imperialista.

Il contesto è essenziale per capire la portata di quel voto. Dopo il 1967 era ormai chiaro che Israele non poteva essere distrutto militarmente. La guerra dei Sei giorni aveva cambiato per sempre i rapporti di forza. Da lì in avanti, l’attacco si spostò su un altro piano: non più l’esistenza dello Stato, ma la sua legittimità. Se non puoi sconfiggere Israele sul campo, lo trasformi in un’entità moralmente tossica. Non uno Stato che sbaglia, ma uno Stato che, per sua natura, è sbagliato.

La Risoluzione 3379 arrivò ‘in un contesto’ (come direbbe oggi il segretario generale del Palazzo di Vetro Antόnio Guterres). Era il punto di arrivo di una lunga offensiva diplomatica. Già nei primi anni Sessanta, durante i lavori per la Convenzione Onu contro le discriminazioni razziali, l’Urss aveva cercato di inserire il sionismo tra le forme di razzismo, proprio per neutralizzare i tentativi occidentali di includere l’antisemitismo tra i crimini condannati a livello internazionale. Antisemitismo e sionismo furono entrambi espunti dal testo finale, ma il seme era stato piantato.

Nel 1975 quel seme germogliò. L’argomentario era semplice e micidiale: sionismo uguale colonialismo, colonialismo uguale apartheid, apartheid uguale razzismo. Una catena di equivalenze grossolane ma efficaci, che consentiva di liquidare Israele senza dover discutere di confini, guerre, responsabilità, compromessi possibili. Non si parlava più di cosa Israele faceva, ma di ciò che Israele era.

Molti Paesi votarono a favore per puro calcolo. I Paesi arabi usarono il ricatto petrolifero. Altri governi inseguivano ambizioni personali o visibilità internazionale. Il risultato fu un’Assemblea generale spaccata, in cui le democrazie liberali restarono in minoranza.

Sedici anni dopo, nel dicembre 1991, la risoluzione venne abrogata. L’Urss era al collasso, il mondo stava cambiando, e persino Mosca votò per cancellare quello che definì un “relitto dell’era glaciale”. Ma la cancellazione avvenne senza una vera resa dei conti. Nessuna ammissione di colpa, nessuna riflessione reale, motivata. E soprattutto, nessuna cancellazione degli effetti culturali e politici prodotti nel frattempo.

Perché il danno era stato fatto. La risoluzione aveva funzionato come una sorta di pietra di Rosetta dell’anti-sionismo contemporaneo. Aveva reso rispettabile, istituzionale, una visione che fino ad allora stava ai margini: l’idea che il sionismo non fosse un movimento nazionale di liberazione, ma una forma di razzismo strutturale. Da lì in poi, ignorare la voce degli israeliani, a meno che non fossero anti-sionisti, diventò legittimo. Anzi, virtuoso.

Quel linguaggio riaffiorò con forza alla conferenza Onu contro il razzismo di Durban nel 2001, dove Israele venne nuovamente dipinto come Stato apartheid, coloniale, genocida. E da lì è entrato stabilmente nel lessico di una parte del mondo accademico, delle ONG, dei movimenti progressisti occidentali.

Cinquant’anni dopo, il voto del 1975 non è un reperto d’archivio. È un precedente che continua a vivere. Ogni volta che Israele viene descritto non come uno Stato criticabile, ma come un errore storico; ogni volta che il sionismo viene trattato come una colpa originaria; ogni volta che la delegittimazione sostituisce l’analisi, lì c’è l’ombra lunga di quella risoluzione. Non fu solo un errore. Fu un atto politico criminale. E come tutti i crimini politici, continua a produrre effetti molto tempo dopo che i suoi autori si sono dichiarati innocenti o pentiti.


ONU, una vergogna che dura da mezzo secolo
ONU, una vergogna che dura da mezzo secolo