Fumata bianca al Palazzo di Vetro su Gaza. Con 13 voti a favore e le astensioni di Russia e Cina, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato al primo colpo la risoluzione americana che fa propria la road map di Donald Trump per la Striscia e autorizza il dispiegamento di una forza internazionale di stabilizzazione incaricata anche di disarmare Hamas. Un passaggio definito «storico» dall’ambasciatore Usa all’Onu, Mike Waltz, che ha rivendicato il ruolo della Casa Bianca: «Sotto la presidenza di Donald Trump gli Stati Uniti continueranno a portare risultati con i nostri partner», ha dichiarato, salutando «l’opportunità di porre fine a decenni di spargimento di sangue e rendere realtà una pace duratura».
Dalla risoluzione dipendeva l’avvio della fase due del piano: quella più complessa, dopo la tregua, lo scambio dei prigionieri e il parziale ritiro dell’Idf dalla Striscia. A incombere, fino all’ultimo, era stata l’incognita del possibile veto di Mosca e Pechino. La Russia aveva messo sul tavolo una bozza alternativa che cancellava dal testo ogni riferimento alla smilitarizzazione di Gaza, si opponeva alla permanenza di Israele oltre la cosiddetta linea gialla, non citava il Board of Peace incaricato dell’amministrazione transitoria dell’enclave – un organismo presieduto dallo stesso Trump – e trasferiva nelle mani del segretario generale dell’Onu il compito di valutare «le opzioni per il dispiegamento della Forza internazionale di stabilizzazione», togliendo così a Washington il ruolo centrale di regia. Una linea sulla quale si erano allineate anche Cina e Algeria.
A cambiare i rapporti di forza, nelle ultime ore, è stata però la pressione dei Paesi arabo-musulmani più influenti – Qatar, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Indonesia, Pakistan, Giordania e Turchia – ai quali si è aggiunto il via libera politico dell’Autorità Palestinese. Un fronte largo che ha reso impossibile per Mosca e Pechino opporsi apertamente a un testo sostenuto dalla Palestina, dall’intera regione e da numerosi Paesi europei. Come previsto dalle previsioni della vigilia, la risoluzione ha superato la soglia dei 9 voti su 15, con Russia e Cina che si sono fermate all’astensione.
Per facilitare questa scelta, la bozza americana è stata limata e rinegoziata. Nel testo finale si sottolinea che gli Stati membri del Consiglio di Sicurezza potranno partecipare al Board of Peace, in carica fino al 31 dicembre 2027, e si introduce un passaggio politico dal forte valore simbolico: «Le condizioni potrebbero finalmente essere mature per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese», una volta che l’Autorità Palestinese avrà attuato un programma di riforme e che la ricostruzione di Gaza sarà in fase avanzata. Restano però intatti i pilastri del disegno americano: alla forza internazionale di stabilizzazione, composta prevalentemente da Paesi musulmani, viene conferito il mandato di garantire la smilitarizzazione di Gaza, compreso il disarmo di Hamas e la distruzione delle sue infrastrutture militari.
Su questo punto si concentrano le critiche più dure, che arrivano da poli opposti: Hamas e Israele. Un gruppo ombrello di fazioni palestinesi guidate dal movimento islamista ha diffuso domenica una dichiarazione contro la risoluzione, bollata come «un passo pericoloso verso l’imposizione di una tutela straniera sul territorio» e accusata di servire «gli interessi israeliani». Le fazioni respingono qualsiasi clausola che preveda il disarmo di Gaza o che possa ledere «il diritto del popolo palestinese alla resistenza».
Dall’altra parte, il premier Benyamin Netanyahu, stretto fra le pressioni dei ministri più a destra del suo governo, ha ribadito che Israele resta contrario alla nascita di uno Stato palestinese e ha promesso di smilitarizzare Gaza «con le buone o con le cattive». Un messaggio rivolto tanto alla propria base interna quanto agli alleati, nel momento in cui il quadro politico e militare sul terreno resta incandescente.
Mentre a New York si votava, Israele doveva fare i conti con nuove tensioni in Cisgiordania. L’evacuazione dell’avamposto illegale di Tzur Misgavi è sfociata in violenti scontri tra coloni e forze di sicurezza: diversi agenti di polizia sono rimasti feriti, mentre decine di attivisti hanno tentato di barricarsi sul posto «attaccando le forze di sicurezza con il lancio di pietre e barre di ferro e incendiando pneumatici e veicoli», secondo fonti di polizia. Altri incidenti si sono registrati nel villaggio di Jaba’a, vicino a Betlemme, con incendi a veicoli e abitazioni.
In questo quadro, è intervenuto anche il ministro degli Esteri israeliano, Gideon Sa’ar, con parole durissime: «I rivoltosi ebrei in Giudea e Samaria danneggiano lo Stato di Israele, disonorano l’ebraismo e causano danni al progetto di insediamento. Loro non sono noi. Non sono lo Stato di Israele. Le IDF, lo Shin Bet e la polizia israeliana devono agire con decisione e fermezza per fermare questa strage, che è diretta anche contro i nostri soldati e agenti di polizia».
Sul fronte diplomatico, il voto dell’Onu apre spazi inediti anche nei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. Secondo quanto riportato dal sito di informazione «Axios», le autorità israeliane non sarebbero contrarie alla vendita di caccia F-35 statunitensi a Riad, ma avrebbero chiesto a Washington di vincolare l’accordo alla normalizzazione dei rapporti tra il regno saudita e lo Stato ebraico. «Abbiamo detto all’amministrazione Trump che la fornitura di F-35 dovrebbe avvenire sulla base della normalizzazione tra Arabia Saudita e Israele», ha spiegato un funzionario israeliano rimasto anonimo, aggiungendo che un’intesa militare priva di risultati diplomatici su questo fronte sarebbe «un errore controproducente».
Per Israele, dunque, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza non è solo un passaggio sul dossier Gaza: è anche la cornice entro cui collocare un futuro assetto di sicurezza regionale, in cui la normalizzazione con Riad e la ridefinizione dei rapporti con il mondo sunnita diventano moneta politica e strategica. Se e quanto questo ambizioso mosaico potrà trasformarsi in una pace reale, e non solo in una sequenza di piani e sigle, dipenderà dalla capacità di far convivere la smilitarizzazione di Gaza con una prospettiva credibile di autodeterminazione palestinese. Proprio quella promessa che, per la prima volta da anni, viene messa nero su bianco in una risoluzione del Palazzo di Vetro. Che la pace possa davvero avere inizio, a questo punto? E chi glielo dice, adesso, ai Propal professionisti di casa nostra?
Onu, fumata bianca sul piano Trump per Gaza

