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ONU. 100 milioni, il prezzo dell’odio

Paolo Montesi

Tempo di Lettura: 3 min
ONU. 100 milioni, il prezzo dell’odio
Danny Danon – ambasciatore israeliano presso l’ONU

Cento milioni di dollari l’anno. È questa, secondo la missione israeliana alle Nazioni Unite, la cifra che l’ONU destinerebbe a un insieme di attività che hanno un tratto comune: Israele come bersaglio quasi esclusivo. Non si parla di singole risoluzioni critiche o di prese di posizione politiche, ma di una struttura permanente, finanziata, organizzata e stabilmente inserita nei bilanci dell’organizzazione internazionale.

A dirlo senza giri di parole è l’ambasciatore israeliano presso l’ONU, Danny Danon, che parla di campagne pianificate “nero su bianco” nei documenti di spesa delle Nazioni Unite. Rapporti, commissioni speciali, dibattiti ricorrenti, programmi di comunicazione: un ecosistema che, secondo Israele, produce ogni anno decine di eventi e centinaia di documenti incentrati quasi esclusivamente sulla delegittimazione politica, giuridica e morale dello Stato ebraico.

Il cuore di questo meccanismo, sostiene Gerusalemme, è costituito da strutture dedicate in modo permanente alla cosiddetta “questione palestinese”. Divisioni interne al Segretariato, comitati dell’Assemblea generale, organismi con denominazioni tecniche e apparentemente neutrali, ma che nella pratica generano contenuti ripetitivi, politicizzati e orientati. La sola produzione, traduzione e diffusione di questi materiali costerebbe diversi milioni di dollari l’anno, a cui vanno aggiunti stipendi, missioni e costi logistici.

Al centro delle critiche israeliane c’è soprattutto l’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, che presenta una richiesta di bilancio annua di circa 86 milioni di dollari. Una parte consistente, secondo i dati diffusi dalla missione israeliana, proverrebbe dal bilancio ordinario delle Nazioni Unite e sarebbe destinata in larga misura al personale internazionale. Il tutto nonostante le accuse di infiltrazioni da parte di Hamas, i ripetuti scandali interni e le richieste di riforma rimaste finora lettera morta.

Non meno controverso è il ruolo del Consiglio dei diritti umani di Ginevra, indicato come un altro pilastro di questo sistema. La commissione d’inchiesta permanente su Israele, istituita nel 2021 con un mandato senza limiti temporali, avrebbe un costo stimato di circa quattro milioni di dollari l’anno. Ed è proprio qui che, secondo Israele, il linguaggio smette di essere quello dei diritti umani per scivolare nella delegittimazione: accuse di genocidio, parallelismi storici forzati, sostegno implicito a iniziative legali ed economiche contro Israele, comprese le liste nere di aziende.

L’effetto cumulativo, sostiene Gerusalemme, non è solo simbolico. Questo flusso costante di documenti e prese di posizione alimenterebbe procedimenti giudiziari internazionali e rafforzerebbe le campagne del movimento BDS, creando una catena che parte dall’ONU e arriva fino ai tribunali e ai mercati.

Israele insiste però su un punto che ritiene cruciale: la denuncia non è rivolta all’aiuto umanitario né alla critica legittima delle politiche di un governo. Il bersaglio è un sistema che, così come è strutturato oggi, istituzionalizza un pregiudizio politico e utilizza fondi pubblici per trasformarlo in prassi permanente. Una macchina che, sotto l’etichetta della neutralità multilaterale, ha smesso da tempo di funzionare come arbitro ed è diventata parte attiva del conflitto.


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