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Non sapendo fare a maglia

Lodovico Festa

Tempo di Lettura: 4 min
Non sapendo fare a maglia

Viviamo in un’epoca pericolosamente caotica, un po’ come alla fine dell’Ottocento e agli inizi del Novecento. Non c’è quell’aperto stato di guerra che inizia nel 1914 e termina nel 1945 (con Guerra fredda al seguito) e che genera fascismo e nazismo nonché quella versione di socialismo militarizzato che fu l’Unione sovietica, ma viviamo in un mondo privo di un consolidato equilibrio tra potenze: un mondo nel quale, in ogni momento, un Gavrilo Princip può sparare a un qualche arciduca reale.

La speranza di un ordine globale fondato su libertà e diritti cresciuta tra la caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’Urss, si è infranta tra gli attentati alle Torri gemelle di Manhattan del 2001 e le stragi jihadiste del 7 ottobre del 2023, queste ultime mirate a sospendere processi come l’allargamento dei Patti di Adamo e il corridoio economico India-Medio Oriente-Mediterraneo, in sé mirabili promotori di una nuova stabilizzazione internazionale.

E non è un caso che, al di là dell’aggressivo tardo zarismo russo e dell’egemonismo cinese, sia sempre lo jihadismo a provocare la scintilla che di volta in volta incendia il pianeta, anche perché non esprime tanto una politica di potenza (di cui spesso peraltro è strumento) quanto una tendenza identitaria islamo-universalista, presente con l’immigrazione anche in Occidente, intrinsecamente eversiva.

È in questo quadro che la questione ebraica e il ruolo di Israele assumono un valore strategico. In “Non sapendo fare a maglia” (un più o meno anomalo libro di citazioni e commenti: un po’ su me stesso e un po’ sull’universo), con una formula che mi pare adatta a descrivere il caos in cui oggi viviamo, più che risposte esaustive mi pongo e propongo alcune domande. E in tre “voci” (il libro è diviso in “voci” con stile da dizionario) mi sono interrogato in particolare sull’attuale centralità della questione ebraica prima citata.

Le voci sono “Ebrei”, “Verbo” e “Signorina”. La prima voce (Ebrei) riporta una citazione di Papa Woytila nelle prima visita che un Vescovo di Roma fece alla sinagoga della Capitale. La seconda (Verbo) richiama un passaggio di Papa Ratzinger sull’Islam e la terza (Signorina) cita una lettera di Martin Heidegger ad Hannah Arendt.

Giovanni Paolo II completa con il suo gesto la rimozione dell’antigiudaismo che ha accompagnato più o meno nettamente la storia del cristianesimo e consolida la consapevolezza di come la civiltà greco-giudaico-cristiana abbia fondato le basi per quella libertà degli uomini che oggi consideriamo “naturale” ma che nasce attraverso un lungo processo storico (e teologico).

Benedetto XVI, nel suo discorso di Ratisbona, ragiona su quel legame tra religione islamica e jihad per la diffusione della fede musulmana che non è stato ancora definitivamente troncato. Heidegger scrive alla sua ex allieva, ricordando il suo legame mai definitivamente interrotto con chi diventò dopo il 1945 una delle più potenti voci di denuncia dei responsabili della Shoa, ma non ruppe i rapporti con il suo maestro non solo contestatore culturalmente del cosmopolitismo ebraico (che personalmente considero provvidenziale), ma anche non esente da gravi compromessi con il regime nazista.

Che domande mi pongo con queste citazioni? L’insegnamento di Papa Woytjla è veramente abbastanza radicato in Occidente, resiste all’ondata nichilistica in corso? La lezione di Papa Ratzinger su un Islam dalle sue grandi potenzialità spirtuali ma con rischi dottrinali guerrafondai non superati, è presente a chi dà giudizi con tanta superficialità su Medio Oriente e Africa?

Infine, con un pensiero rivolto a tutti quegli ebrei che sono fortunatamente liberi di criticare il governo israeliano anche in guerra, le contraddizioni personali e culturali che accompagnano da sempre l’umanità possono impedirci un giudizio eticamente ragionevole sulla realtà, innanzitutto, nei tornanti pur tragici della storia, si può non scegliere tra Adolf Hitler e Winston Churchill, tra Hamas e Israele?


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