Sono un ex studente dell’Università di Pavia, dove mi sono laureato in Lettere nel 2003.
Ho letto con attenzione la mozione approvata dal Senato Accademico lo scorso 20 ottobre sul conflitto israelo-palestinese e ho provato, nell’ordine, disagio, incredulità e infine il bisogno di scrivere queste righe.
Non metto in discussione la libertà di opinione dei singoli membri del Senato, ma trovo inaccettabile che un organo accademico si esprima con un linguaggio e un impianto che, a mio avviso, eccedono la competenza propria di un organo accademico.
La mozione dichiara di condannare “ogni episodio di antisemitismo”, ma quella frase, pur doverosa, suona come una formula di rito, utile a rendere presentabile una condanna che, per come è formulata, risulta asimmetrica: il focus resta su Israele, mentre il contesto e la complessità vengono ignorati.
Si citano numeri e fonti non universalmente convalidati, trattati come verità indiscutibili: un modo di procedere che viola il metodo scientifico, sostituendo la verifica con la suggestione. Si usano parole come “sterminio”, “pulizia etnica”, “apartheid”: termini gravissimi del lessico etico, storico e giuridico, impiegati però come strumenti retorici, non come categorie analitiche.
La mozione condanna “il governo, l’esercito e i coloni di Israele”, ma il governo di uno Stato democratico rappresenta la nazione, l’esercito israeliano è composto da cittadini e riservisti e quindi nuovamente dalla nazione, e la parola “coloni” – senza distinguere tra insediamenti illegali e popolazione civile – evoca immagini di conquista ormai associate all’intero Stato d’Israele.
Il risultato è che l’afflato umanitario e l’indignazione finiscono per prevalere sull’analisi.
Una mozione che arriva a sollecitare la sospensione di collaborazioni scientifiche con università israeliane avrebbe dovuto poggiare su un lavoro serio, plurale, verificato: un comitato interdisciplinare, una comparazione di fonti, una verifica incrociata dei dati.
Invece si citano appena tre riferimenti: un policy brief dell’ISPI, un rapporto della relatrice speciale ONU Farida Shaheed e un articolo della testata “Pagine Esteri”.
Il primo è un documento geopolitico non sottoposto a peer review; il secondo è un testo di advocacy politica che da solo non sostituisce una puntuale istruttoria accademica; il terzo è un articolo giornalistico, firmato dalla redazione.
Non intendo contestare il valore morale delle fonti scelte, ma la loro idoneità a fondare una deliberazione accademica.
In un qualunque seminario universitario, nessuno di coloro che hanno votato la mozione accetterebbe da uno studente un lavoro basato su simili premesse.
E anche ammesso che i dati citati siano corretti, resta il punto che non sono stati usati nella sede appropriata.
Non basta “avere” le fonti: bisogna collocarle nel giusto contesto conoscitivo.
Un Senato Accademico può discutere qualunque questione, ma può deliberare su una materia di natura geopolitica senza prima averne istruito il contenuto in modo scientificamente fondato? Riportare fonti politiche o giornalistiche in un atto deliberativo che determina una linea di governo dell’ateneo – e incide sui rapporti con altri istituti – induce a confondere l’autorità morale con quella epistemica.
Il sapere dovrebbe restare la misura che limita il potere, non ciò che lo giustifica.
In queste settimane la stampa ha dato notizia di un ampio fermento in numerosi atenei italiani intorno alla medesima questione, con mozioni, discussioni e prese di posizione. In diversi casi – da Torino a Bologna, fino a Padova e Roma – deliberazioni analoghe hanno suscitato richieste di revisione o di chiarimento da parte della comunità accademica, segno che il dibattito, pur acceso, resta vivo e plurale.
Proprio per questo, stupisce che a Pavia l’approvazione della mozione sia avvenuta senza un analogo processo di confronto pubblico e di verifica dei contenuti: uno scarto meritevole di chiarimento.
La mozione è stata approvata con 25 voti favorevoli e 3 astensioni, tutte provenienti da rappresentanti studenteschi.
Tra i favorevoli figurano direttori di dipartimento e docenti di filosofia, diritto, sociologia, economia, filologia: persone che più di chiunque altro conoscono il valore della parola.
È questo a rendere questa decisione ancora più difficile da comprendere.
Infine, non posso non menzionare il caso del docente israeliano riservista – oggetto di un articolo della “Provincia Pavese” del 20 ottobre – che indica quanto il contesto generale tenda a riflettere, più che interrogare, gli orientamenti prevalenti nel dibattito pubblico, riducendo così lo spazio per una riflessione realmente critica.
Un atto come questo non è solo dichiarativo: produce effetti.
Quando un Senato accademico assume una posizione che orienta i rapporti scientifici e istituzionali, entra di fatto in un campo di applicazione concreta.
Se non vengono indicati con precisione criteri e responsabilità, si apre una zona grigia in cui tutto può accadere: dalle sospensioni informali di collaborazioni fino a un vero e proprio isolamento scientifico di singoli docenti o enti.
È per questo che chiedo all’Ateneo di chiarire pubblicamente in che modo intenda tradurre o, se necessario, ritrarre la mozione approvata.
Il rischio, altrimenti, è che un gesto simbolico diventi un precedente operativo, capace di produrre discriminazioni senza che nessuno se ne assuma la responsabilità.
Mi auguro che la comunità accademica, almeno nei suoi membri più liberi, voglia interrogarsi su questo punto.
Non per aprire una polemica, ma per riaffermare un principio: senza rigore e metodo, nessuna università può dirsi tale.
Ed è proprio questo, alla fine, ciò che non è accettabile, almeno per me.
Non è accettabile, almeno per me
 Non è accettabile, almeno per me