È bastato un giorno. Ventiquattr’ore tra la nomina e le dimissioni. Catherine Almonte Da Costa, scelta dal sindaco eletto di New York Zohran Mamdani come direttrice delle nomine – un incarico delicatissimo, centrale nella costruzione dell’intera macchina amministrativa – ha dovuto farsi da parte dopo che sono riemersi vecchi post antisemiti pubblicati sui social oltre dieci anni fa.
Commenti grezzi, stereotipati e senza attenuanti: da “money hungry Jews” (ebrei avidi di denaro) a “Far Rockaway train is the Jew train”, espressione usata per indicare la linea della metropolitana frequentata dagli ebrei, secondo una etichettatura etnica che trasforma un mezzo pubblico in un marchio identitario e, quindi, in un bersaglio simbolico. Per non parlare delle battutacce sui ricchi colleghi ebrei. Insomma, siamo al repertorio classico, quello che non lascia spazio a interpretazioni benevole.
La sequenza è istruttiva. L’Anti-Defamation League rende pubblici i post e l’account X di Da Costa sparisce nel giro di poche ore. Subito dopo arriva la lettera di scuse, il riferimento alla “persona che sono oggi”, il richiamo al fatto di essere madre di figli ebrei; infine le dimissioni, accettate senza esitazioni da Mamdani. Il tutto con la velocità della luce e il bisturi di un chirurgo, come se il problema fosse soprattutto contenere il danno.
Formalmente, il caso si chiude qui. Politicamente, invece, resta aperto e pesa.
Non tanto – o non solo – per i post in sé, che risalgono al 2011-2012 e che Da Costa definisce non rappresentativi della sua identità attuale. Il punto è il contesto in cui esplodono. Zohran Mamdani arriva alla guida di New York con un profilo che inquieta una larga parte della comunità ebraica: attivismo radicale anti-Israele, ostilità esplicita al sionismo, frequentazioni e alleanze che negli ultimi anni hanno più volte sfiorato, quando non oltrepassato, la linea dell’antisemitismo. I sondaggi parlano chiaro: la maggioranza degli ebrei newyorkesi teme che la città diventi meno sicura sotto la sua amministrazione.
New York non è una città qualunque. È la più grande comunità ebraica della diaspora ed è anche una città in cui gli ebrei sono, da anni, il gruppo più colpito dai crimini d’odio. In questo quadro, ogni scelta simbolica, ogni nomina, ogni parola pesa doppio.
Il caso Da Costa non è un incidente isolato. Solo il mese scorso, un altro membro dello staff di Mamdani aveva dovuto scusarsi per vecchi post contro Israele. Nella squadra di transizione figura anche Tamika Mallory, figura di spicco del Women’s March, più volte accusata di ambiguità, quando non di aperta ostilità, verso il mondo ebraico. Non si tratta di “mele marce” casuali, ma di una costellazione che racconta un clima, un ambiente, una soglia di tolleranza.
Certo, Mamdani ha fatto ciò che doveva fare: ha accettato le dimissioni, ha parlato di rimorso, ha chiuso il dossier. Ma resta una domanda scomoda, che va oltre il singolo caso: com’è possibile che per un incarico così alto non sia stato fatto un controllo approfondito prima? O forse quei post non erano considerati un problema fino a quando non sono diventati pubblici?
Il rischio, per il nuovo sindaco, non è solo quello di inciampare ancora in vecchi tweet. È quello di rafforzare l’idea, già diffusa, che l’antisemitismo venga percepito come un peccato veniale, un rumore di fondo ideologico, qualcosa per cui ci si scusa solo quando si è messi con le spalle al muro. Le scuse, soprattutto quando arrivano tardi, non bastano a dissipare questa impressione.
Il messaggio che passa, volenti o nolenti, è semplice: le parole contano meno dei rapporti di forza, e certi stereotipi possono restare sepolti finché non intralciano il percorso politico. In una città come New York, e in un momento come questo, è un messaggio pericoloso. Perché gli scivoloni antichi non sono mai davvero antichi, quando trovano un terreno pronto ad accoglierli.
New York, New York. Le prime grane dell’amministrazione Mamdani
New York, New York. Le prime grane dell’amministrazione Mamdani

